Corriere dello Spettacolo

L’universale insularità. Poesia e poetica di Oliver Friggieri

 

Uomo profondamente radicato alla sua terra, alla sua isola Oliver Friggieri (1947-2020), il più importante scrittore maltese dal secondo novecento in poi, ma che soprattutto, nella consapevolezza di un mondo di cui ogni piccola parte è continente, ha ben saputo riportare nella sua parola l’universalità di condizione di esclusione e solitudine , di separazione dunque, dell’uomo tutto nella fragilità di un’epoca, quella a cavallo di novecento e nuovo millennio. Umanista a tutto tondo, formato a una cultura quella di un classicismo italiano cui ha sempre guardato nel rigore di una presenza e di una passione accesa alle istanze del proprio tempo, è riuscito così con grande modernità a coniugare fratture e segnali di una occlusa contemporaneità alle favole di una memoria anch’essa offesa, anch’essa scissa nel disconoscimento di se stessa. Così allora è proprio nel disconoscimento, dell’uomo con sé e con gli altri nel buio di una sacralità che sembra avvampare ovunque ma appunto non nell’uomo, il cuore di una poesia che, nella segreta e disperante creaturalità dei suoi elementi, ha volto in canto e quindi alla sua seduzione lo spento agone di una vita accesa solo alle sue ripetizioni di morte. Tra dominio e fine delle ideologie, tra ipertecnicismi e affossamenti di mercato, è nella parola sola, dell’uomo solo fedele alla dignità della sua origine, e della sua chiamata, la chiave di un’evocazione non altrimenti suscitabile, però, se non dalle rovine del proprio inferno. Dal disincanto, dallo scetticismo amaro nei confronti di un animo umano, per limite segnato da sempre, e quindi non da oggi, dalla violenza dei contrasti, là dove avverso se non vilipeso, contravvenuto nel valore del suo disegno d’amore (“Sotto l’ombra degli occhi/si nascondono i pali alti sulle case/e le grotte moderne illuminate/che vendono in offerta speciale l’alba”) lo sguardo nella preservazione e nella riattualizzazione dell’amore stesso ha la sua radice proprio dove appunto ogni negazione lo inficia deturpandone il volto.
Non a caso nell’unione di mitologie e cantari di riferimento prettamente mediterraneo e cadenze d’ascensione biblica, la fuoriuscita, forse più che necessariamente simbolica ma anche drammaticamente reale (vedi tra l’altro l’angosciosità del dettato nel romanzo La menzogna, l’opera in prosa senz’altro più riuscita) è nella dualità uomo-donna perseguitata in quell’unità di fertile libertà, e desiderio, in quanto eversiva nell’audacia della reciproca domanda (ed evocatrice dell’ignoto in quel timore così evidentemente maltese venendo dal mare). La diversità dell’amore di qui come possibilità di riscatto, nella naturalità di un motivo rigettato perché misconosciuto su un pianeta disperso nell’incontrollato vigilare del sentimento. Ed allora se come più volte è stato sottolineato, e ribadito con orgoglio dallo stesso Friggieri, il carattere ulissico dell’uomo da lui raccontato, del naufrago, dell’itinerante perpetuo archetipo dell’umanità tutta, l’essere in un tempo cui tante scoperte scientifiche hanno reso più solo se non triste ed estraneo a se stesso, il viaggio assume il carattere di una dispersione che ha nell’indagine metafisica e divina il volto quasi fantascientifico di una terra senza più cosmo o di un cosmo (“universo sempre in odio di sé”) pietrificato nella propria angoscia (in un avvicinamento, potremmo dire nell’azzardo dell’accostamento, con alcuni presupposti, di perdita, di panico con l’Aniara di Martinson nella connotazione di una poetica in assoluto più che moderna, più che europea). L’amore dunque a dar luce come solo depositario del carico, e carico esso stesso di una condizione umana al collasso, di una terra e di un mondo che solo dalle piccole e silenziose spinte di una coscienza dapprima individuale, singola nella consapevolezza di un’oscurità del percorso costellato da isolamento, inquietudine, respingimento e dunque da dolore, e poi di risalita a due, può smuovere dalla palude dei propri infingimenti l’intero gruppo umano nella sclerosi di una rassegnata gnosi relazionale e progettuale. Non a caso è il poeta, e il poeta sacralmente e civilmente innamorato, a incarnarne tutta l’urgenza ridandone così memoria e riattualizzazione nella radice della sua promessa. Il poeta allora come figura di un infinito cui il cuore dell’uomo avverte tutto il richiamo, e la spinta ma anche la propria chiusura a fronte delle paure di cui non cessa di essere ostaggio. Al canto delle malie (di nuovo Ulisse) da terra il contraltare è quella di una musica che se ne faccia insieme ora evocazione ora lotta, ora disquisizione nella possibilità del desiderio di sciogliere a sé nella continuità del legame, e nel proprio nutrito stupore, i motivi antichi del proprio cercarsi. Eppure, nel segno di una rabbia che continuamente alza il tono nei confronti di una realtà chiusa nella sua inaccessibilità, è la malinconia piuttosto a predominare in queste poesie nella consapevolezza e dunque nella vanità di uno scontro con un qualcosa che sovrastandola e superandola tende ad annullare la condizione umana nelle sue indifferenze, in un tratto (certo non sorprendente dato lo sguardo alla tradizione lirica del nostro paese) molto leopardiano del poeta di Floriana.
Ma in Friggieri la tentazione del nulla non vince, risolvendosi nella forza di una fede, quella nel Dio cristiano dei padri cui con umiltà, perseveranza sa rimettersi senza essere arrendevole bussando nella infinita frammentarietà del limite, del dubbio tra eventualità e provvisorietà là dove la vita si piega, e si paga, nella restituzione di se stessa. Interessante è allora riportare quanto da lui sottolineato a proposito di questo legame cui il verso si fa proposizione:” La morte, l’amore di Dio vivo e nascosto: sono i miei più vivi punti di riferimento da cui non sono mai riuscito a liberarmi. La morte come eventualità assoluta, l’amore come legge della coscienza in netta contrapposizione alla morte, e Dio come il senso supremo: sono tappe di un unico itinerario. (..) Il dubbio ha anch’esso una sua certezza. Forse la poesia stessa, ambigua, ambivalente, è l’espressione del dubbio, con cui si continua a vivere e a sperare”. Tenendo altresì a sottolineare che se “la certezza è soltanto divina” pure, però, dell’uomo è il suo sapersene portatore nell’espressione di una solitudine che non solo ha nell’amore, e nell’amore in tutte le sue accezioni, la sua risoluzione ma anche la sua direzione al centro di un sistema di elementi che ha nella natura il suo compiuto divenire e il suo riferimento. Un tema questo a lui caro, l’uomo a rischio nel contrasto con un ambiente che non sa più ascoltare. La terra allora come patria comune che chiama alla vita con parole di madre ma anche di colomba ora nell’ illuminazione ora nel timore di prender grano dalle nostre mani nella metafora di uno spirito combattuto. Così è nell’intreccio sapiente di ispirazioni divine e figurazioni ancestrali, di dettati d’amore e di carne che l’uomo di Friggieri, non cessa di avanzare nel racconto “dei giganti vecchi e degli dei” alla ricerca delle comunanze sepolte dentro anime scoperte a malattie che non hanno sentito arrivare. Ecco perché, Adamo in cerca di redenzione, poeta sotto la croce di un Golgota cui non può e non vuole fuggire nella consapevolezza di una sorte che di lì nascendo là avrà ritrovamento, ha anche nella lotta contro il conformismo della politica, contro la sua deresponsabilizzata se non abusata gestione della cosa pubblica il motivo del suo contendere, come già ebbe a dire Bruno Rombi nella prefazione a La voce dell’onda.
Un versante questo evidentemente non scisso dall’intreccio di una poetica che ha del vivere la logica di un esserci nella costruzione e nella costruzione in comune ma il suo più compiuto riflettersi che trova i suoi atti d’accusa nella impossibilità della scrittura della storia sepolta nelle sue piccole patrie, nei sepolcri inaccessibili di un potere nelle cui forme a crescere è solo il senso di separazione e solitudine sociale. Così di grandi e piccole guerre è fatta questa poesia nel cui rosario di presenze e memoria a dirompere è l’incisione dell’uomo a restare nel prestarsi non nel contendersi, nel servizio allora a rompere quell’istinto di dominio, e morte che pure gli appartiene. Paradigmatico allora appare il lungo testo “I salmi di Budapest” (in La voce dell’onda) dedicato all’amico Papp Árpad, il poeta ungherese che ebbe a lavorare con lui all’Università de La Valletta. Si tratta infatti di una elegia in sedici movimenti in cui nella rievocazione dei fatti di Budapest del 1956 il dovere di resistenza al male, di sua testimonianza, si fa monito al perché di un campo nella fecondità del germoglio solo nella capacità quotidiana di proporsi e rialzarsi là dove nella dignità del reciproco riconoscersi e sostenersi “nessuna falce può arrivare”. E dove piuttosto, (“La mia favola di Badaconj”, ancora sui fatti d’Ungheria) come nel racconto del poeta della promessa compiuta del sole “sceso a sciacquarsi “, e a sciacquare il sangue, la sazietà della terra, di mandorle e d’uva, di “ogni desiderio” si fa nella fatica condiviso paradiso. Per quanto però a restare, come nel significativo autoritratto in poesia “Il poeta e il politico”(ancora in La voce dell’onda), è nella lotta tra le due figure, nel pungolo tedioso del potente l’estrema difficoltà della parola a scavare, a comprendere ad estrarre”granito dal cuore duro”, nel rischio di una sua estinzione a fronte della minaccia dei suoi avversari. Torniamo allora al cerchio di una solitudine che ritorna, di un destino di cui il poeta, uomo tra gli uomini non può che esserne cantore nella consapevolezza di uno stato che come lui stesso ebbe a ricordare non è storica, geografica ma esistenziale e dunque universale. Da uomo e scrittore di forte impronta spirituale, nella ferma convinzione che è in Dio la spiegazione e il senso di ogni la poesia allora trova nell’intreccio di fede, storia e politica la sua metodologia nell’ansia di spiegazione dell’essere, e del suo assurdo. La vita infatti, come ebbe a sostenere con forza “deve essere anche raccontata, vissuta come coscienza e sentimento e non soltanto come esperienza, una schiera di fatti. Ecco perché il mondo ha tanta urgenza di poesia oggi, proprio perché la non-poesia, l’aggressione, la violenza, l’apatia hanno dominato l’uomo e l’hanno trasformato in una macchina, in un oggetto”. Storica allora resta la forma del suo raccontare Friggieri riuscendo con magistrale sapienza a mantenersi moderno tra la classicità dei suoi riferimenti e la coscienza antica delle voci dell’isola giungendo a misurarsi nella fase finale della sua produzione anche con l’haiku. Ed allora proprio con uno di questi lo andiamo a ricordare e a ringraziare nel ricordo di un uomo che sapeva nel piccolo la sacralità e la continuità della risposta:”Non trovi Dio/nella cattedrali se manchi di cercarlo/ in una formica”.

Gian Piero Stefanoni

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