BERLINO, 16 FEBBRAIO – I film in concorso della seconda giornata del 74° Festival Internazionale del Cinema di Berlino di oggi confermano il detto secondo cui il piccolo e l’umile possono superare il grande e l’ambizioso.
E infatti, se il messicano Alonso Ruizpalacios, con “La cocina”, riesce nel suo intento di rappresentare la complessità del mondo attraverso una frenetica cucina di ristorante multietnico, e l’americano Aaron Schimberg rinfresca la favola della bella e la bestia combinandola con una storia di insicurezza congenita, è infine la sorpresa del giorno l’iraniano “Keyke mahboobe man” (Il mio dolce preferito) del duo Maryam Moghaddam-Behtash Sanaeeha con la loro toccante storia di una settantenne pronta a sfidare un regime teocratico e repressivo pur di fuggire dalla sua solitudine.
Novantasette minuti sono sufficienti a Maryam e Behtash, moglie e marito nella vita reale, per raccontare la storia di Mahin, che dopo 30 anni di vedovanza e 20 di vita solitaria a causa dell’esilio dei suoi due figli, decide di rompere con tutti i tabù di una società repressiva e di portare a casa un coetaneo tassista altrettanto solitario.
Mostrare in azione la polizia guardiani della moralità pubblica che arresta ogni donna che non indossa correttamente l’hijab, come è successo un paio d’anni fa a Mahsa Amini, morta in una stazione di polizia e che ha provocato una serie di manifestazioni di protesta che continuano ancora oggi, o donne che ballano e bevono alcol o non indossano il velo islamico nelle loro case, è la sfida che la coppia di registi ha affrontato nel film, conoscendone bene le conseguenze.
Le principali delle quali è che il film sia proibito in Iran, come lo è stato il precedente del duo, “La balada de la vaca blanca”, presentato qui a Berlino nel 2020, e che il negativo debba essere conservato al di fuori dell’Iran, con post-produzione nei tre paesi cofinanziatori Francia, Svezia e Germania.
Sotto l’apparente semplicità della storia, Moghaddam e Sanaeeha utilizzano ogni minuto del film per denunciare la situazione sociale del loro paese, intrappolato in una rete soffocante di divieti e protocolli, descrivendo allo stesso tempo le astuzie degli abitanti per condurre una vita il più normale possibile, al di fuori e in contrasto con le ordinanze delle autorità religiose.
Il film sarà una scoperta per il pubblico straniero per la quantità di dettagli sulla vita privata in Iran, descritti da due attori veterani meravigliosi, Lili Farhadpour, già vista e ammirata in “La balada de la vaca blanca” e Esmaeel Mehrabi, che assicurano già un posto importante nei premi finali.
Dieci anni fa, il messicano Alonso Ruizpalacios lasciò Berlino con il premio per il miglior debutto con il suo “Güeros” e ora, con altri due lungometraggi e la partecipazione a diverse serie importanti come “Star Wars” e “Narcos” alle spalle, presenta la sua opera più ambiziosa, sia in termini di produzione, una coproduzione messico-americana parlata in inglese, spagnolo e una miriade di dialetti e accenti, sia di realizzazione, con una trentina di personaggi importanti, capaci di uscire da un coro multi-etnico per acquisire una personalità sociale e psicologica propria.
Raúl Briones e Rooney Mara guidano un cast che raggiunge il suo massimo splendore in un piano sequenza di 14 minuti (che sono i più straordinari di una durata totale, forse eccessiva, di 139) in cui tutto il personale si distingue preparando e distribuendo piatti nella fedele descrizione di una cucina al suo massimo livello di produttività.
Aaron Schimberg è uno sceneggiatore e regista newyorkese (la cui età nascondono gli archivi) al suo terzo lungometraggio con questo “A Different Man” che racconta la storia di un giovane, che attribuisce alla neurofibromatosi che soffre e gli sfigura il viso, la mancanza di futuro nella sua vita, solo per scoprire, dopo una cura miracolosa che gli restituisce l’aspetto, che era l’insicurezza la causa dei suoi mali.
Interpretato da Sebastian Stan, affiancato dalla bellissima norvegese Renate Reinsve (scoperta nel 2021 per il suo ruolo in “La peor persona del mundo”, qui nel suo promettente debutto nel cinema americano) e l’inglese Adam Pearson (lui stesso vero malato di neurofibromatosi), il film naviga tra la satira, la favola e l’esame sociopsicologico, senza riuscire a trovare un’unità narrativa convincente.
Antonio M. Castaldo