Festival di Berlino: bilancio negativo

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BERLINO, 24 FEBBRAIO – Dopo quattro anni alla guida del Festival di Berlino, il selezionatore Carlo Chatrian e la direttrice artistica Mariette Rissenbeek lasciano il loro incarico con un’edizione della Berlinale che si segnala come la peggiore degli ultimi anni.
Un quadriennio, è vero, segnato dalla pandemia e dal conseguente arresto della produzione cinematografica mondiale, ma che non ha mai intaccato la creatività dei cineasti, come dimostrano i festival di Cannes e Venezia degli stessi anni, capaci di presentare una selezione di alto, se non altissimo, livello, come si può vedere oggi agli Oscar tradizionali di marzo, dove molti dei candidati sono stati premiati proprio in questi tre festival europei.
Tuttavia, non tutto ciò che è stato visto in concorso può o deve essere scartato. Alcuni titoli saranno ricordati, come la commedia agrodolce iraniana “La mia torta preferita” della coppia Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, che hanno fatto scandalo al festival quando le autorità di Teheran hanno ritirato loro il passaporto.
Il film, comunque, è già stato venduto in tutto il mondo, rendendo vani i tentativi delle autorità iraniane di mettere a tacere questa coppia di cineasti che non esitano a mostrare al mondo l’intolleranza e la mancanza di libertà che regnano nel loro paese.
Altri film che hanno saputo conquistare il favore del pubblico e della critica sono stati “Sterben” (Morire), ritratto di una famiglia costretta ad affrontare i grandi momenti della vita – amore, morte, paternità – e che rappresenta uno dei migliori lavori nella carriera del veterano regista tedesco Matthias Glasner, e la commedia “Hors du Temps” del francese Olivier Assayas, che evoca con un sorriso nostalgico i primi mesi del Covid-19 e la sua sequela di severi e assurdi consigli per evitare il contagio.
Si sono distinti anche “La cucina” del messicano Alonso Ruizpalacios, in cui si muove un universo umano di diversa origine, lingua e cultura all’interno di un ristorante di fast food newyorkese, con i suoi drammi personali di sfruttamento, integrazione e emarginazione che caratterizzano l’attuale fase del capitalismo, e il debutto nella regia di lungometraggi della cantautrice italiana Margherita Vicario che in “Gloria!” ci ricorda quella anonima moltitudine di giovani strumentiste, allieve degli orfanotrofi dei secoli XVII e XVIII, che sono passate senza lasciare traccia nella storia della musica barocca.
Non hanno deluso, ma senza brillare, il tedesco “In Liebe, eure Hilde” di Andreas Resen sulla fragile e discontinua resistenza interna al nazismo, il francese “Langue étrangère” di Claire Burger sulla gioventù europea che scopre nuovi orizzonti con lo scambio culturale ed educativo, e l’austriaco “Des Teufels Bad” di Veronika Franz e Severin Fiala che ci mostra gli aspetti più oscuri del XVIII secolo, quando il cosiddetto Secolo delle Luci non riusciva a illuminare le miserie e le superstizioni della vita quotidiana nei villaggi più remoti del Vecchio Continente.
Per gli altri, è meglio calare un velo di silenzio.
Antonio M. Castaldo

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