456 e il riflesso di un mondo

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456 è una commedia scritta e diretta dal regista, sceneggiatore e autore teatrale Mattia Torre. Grazie al successo ottenuto nel 2011, lo spettacolo ha continuato a essere messo in scena, e dal 2022 esiste anche un adattamento televisivo realizzato da Sorrentino. Questa scia di rappresentazioni rende omaggio a un autore prematuramente scomparso, dotato di uno sguardo acuto e critico. Lo spettacolo vede coinvolti Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino e Giordano Agrusta.

Si tratta della “storia comica e violenta di una famiglia” che abita in una vallata sperduta della Sicilia. Il nucleo famigliare è composto dal padre Ovidio, dalla madre Maria Guglielma e dal figlio diciannovenne Ginesio, incarnato dall’attore Carlo De Ruggieri. La scelta di un attore adulto per impersonare il diciannovenne è significativa: in questo modo Ginesio si trova ad avere il corpo di un adulto, quasi come se l’aver vissuto in quell’ambiente familiare asfittico l’avesse reso già vecchio.

La scena si apre con Ginesio, inquieto, seduto a tavola, mentre i genitori si avvicendano attorno al sugo della nonna, che rimestano da quattro anni, ovvero da quando quest’ultima è deceduta. Fin da subito è evidente l’ossessione dei genitori nei confronti del cibo e della cucina. Il rimestamento perpetuo e ossessivo del sugo diventa simbolo della loro arretratezza e incapacità di evoluzione. Dato lo sguardo torvo del figlio, la madre lo assilla con domande sul suo stato e menziona tradizioni culinarie che sfociano in credenze popolari. Parlando di come si cucina il ghiro, quest’ultima inizia a enumerare i benefici miracolosi che questo avrebbe sulla salute (“Previen u infart’. Porta fortun’. Dice che catturar u ghiru mett in periculu a specie protetti”). In un attimo, sia Ovidio che Ginesio, si uniscono al coro della madre gridando: “muorte alla forestali!”. Questa formula verrà ripetuta più volte durante lo spettacolo, come una specie di mantra liberatorio o rito esorcistico. Il contesto in cui vivono è ignorante e intriso di luoghi comuni: Ovidio e Maria Guglielma inanellano senza sosta formule stereotipate in un dialetto tutto loro, e si affidano continuamente ai santi.

La prima strofa della canzone finale, Our mutual friend, dei “Divine Comedy” (No matter how I try / I just can’t get her out of my mind / And when I sleep I visualize her) descrive in modo efficace le diverse nevrosi dei protagonisti: Maria Guglielma è ossessionata dalla tiella che “’a francise” non le ha mai restituito; Ginesio dalla voglia di fumare e di evadere da quella casa in cui si parla solo di cibo (“O signore meu liberami… liberami da ’stu inferni e provoli e preciutti”); Ovidio dall’attesa della cena con Treti Gargiulo, forse accompagnato dalla “francise”, sua consorte, da cui attende un’importante conferma, ma anche dal voler figurare bene ai suoi occhi, per cui costringe la moglie e il figlio a inscenare un teatrino il cui scopo è la risultanza della bontà dei prodotti che verranno portati in tavola. A questo proposito, Ovidio chiede continuamente alla moglie di ripetergli il menu, la quale, dopo essersi inizialmente rifiutata, si arrende alla volontà del marito e dunque alla ripetizione. Maria Guglielma, costatando un certo nervosismo da parte del marito, gli propone di lasciar perdere la cena e di andare al ristorante con gli ospiti. Ovidio però non sopporta l’idea di uscire di casa, e alle diverse proposte della moglie, non retrocede di un passo dalle sue convinzioni:

OVIDIO: E non ce lo pigghio l’aeroplano.

MARIA GUGLIELMA: E ci pigghiamo u trenu.

OVIDIO: Manco u trenu ci pigghiu chine ’e ricchiune… a casa stape io.

MARIA GUGLIELMA: Ch’a macchina andiamu.

OVIDIO: Di la macchina è più sicuri l’aeroplanu t’ape ditto tuotto. U menu, forza.

I gesti ripetitivi e ossessivi dei genitori hanno dunque fatto sì che Ginesio introiettasse parte di quegli atteggiamenti, ma che non vi aderisse pienamente (il padre infatti lo considera “bizzarru”). Ripete i mantra familiari, ma riesce anche a trovare il coraggio di manifestare l’esigenza di un’esistenza diversa (trasferirsi nella capitale da Alfonso), esigenza cui il padre si oppone, sostenendo che non ci sia nessuna ragione valida per andarsene da lì. Al fine di avvalorare la sua tesi, chiede al figlio se secondo lui, la scolopendra appesa al muro di casa faccia una brutta vita. Ginesio ammette di sì e per questo viene apostrofato dal padre con frasi come “E sentiamo, sentiamo, perché fa una vita brutti u scolopenzi, dicci, spiegaci a ’sti comuni mortali”. Ginesio sostiene che l’esistenza della scolopendra non sia felice perché priva di progettualità e per questo di senso.

Ovidio, ferito e offeso, si scaglia contro l’affermazione del figlio, dicendogli che lasciare casa è estremamente pericoloso e gli ricorda che si può solo sognare, perché agire equivale a morire (“E tu Ginesio vuole sognari? Sogna… ma sappi che se puote solo sognari picché se vuoi fari un qualcheccosa: è semplice: muori…”). Secondo Ovidio, la condizione ideale è quella della scolopendra che non ha progetti e che non deve piegarsi a esigenze altrui. Le intimidazioni di Ovidio vanno a segno, riuscendo a scoraggiare Ginesio, il quale, in fondo, riesce solo a obbedire.

Dinamiche simili si trovano anche in una pièce di Bernard-Marie Koltès, Ritorno al deserto, pubblicata nel 1988. Mathieu, come Ginesio, prova a ribellarsi al padre dispotico, Adrien, manifestando l’esigenza di uscire di casa. Adrien si comporta come Ovidio, soffocando ogni desiderio di aprirsi al mondo esterno da parte del figlio:

ADRIEN. – E perché diavolo vorresti uscire? Ti manca qualcosa? Se ne occuperà Aziz […] Il mondo è questo, figlio mio, lo conosci perfettamente, lo percorri tutti i giorni e non c’è nient’altro da scoprire. Guarda i miei piedi, Mathieu: ecco il centro del mondo; al di là, c’è il confine; se ti avvicini troppo, cadi (p.23)

E raggiunge Ovidio nella descrizione della provincia come luogo ideale in cui vivere:

ADRIEN. – Mathieu, figlio mio, la provincia francese è l’unico posto al mondo in cui si sta bene. Tutti ci invidiano la provincia, la sua calma e i suoi campanili […] Non si può desiderare altro, in provincia, perché abbiamo tutto ciò che un uomo possa desiderare (p.24).

La refrattarietà al cambiamento, sia da parte di Adrien nel Ritorno al deserto, che da parte di Ovidio e Maria Guglielma in 456, si traduce nell’incapacità di ribellarsi dei figli. Per questo risulta appropriata e molto significativa la scelta del regista di mettere in scena un attore adulto per vestire i panni di Ginesio: il figlio invecchiato anzitempo incarna l’aridità e la mancanza di prospettive del contesto in cui si trova. A questo proposito, sono significative le parole di Ovidio, il quale rivolgendosi al figlio, afferma: “Tu sei i speranza de i casa. Sei anni che aspettiamo figlio mio sei anni. Che sei anni fa eri u bambino e adess sei un vecchio, figlio mio. Quanti cazzo di anni c’ape?”. Anche Ovidio quindi si rende conto che il figlio ha le sembianze di un vecchio, nonostante la giovane età. Questa sua realizzazione ci traghetta verso la parte finale dello spettacolo. Ovidio, dopo l’incontro con Treti Gargiulo, è raggiante; Ginesio, che non capisce, gli chiede spiegazioni. Ovidio allora gli dice che ha “investito u gruzzolett, investito biune”. Per Ginesio, è una notizia tragica: il gruzzoletto simboleggiava la libertà, e quindi la possibilità di rifarsi una vita nella capitale. Le speranze di Ginesio si infrangono definitivamente quando scopre nel dettaglio l’investimento del padre: “Ape comprat tre loculi”. Ginesio non si dà pace e si scaglia contro il padre, accusandolo di avergli precluso ogni possibilità di futuro: “Ape buttat u gruzzoletto deu meu pazzia per tre loculi di muorte sempre la muorte la muorte dappertutto!!!”. Ovidio a sua volta risponde all’attacco confermando al figlio che “la muorte è dappertutto” e che “la vita è a muorire”; in queste parole l’idea di fondo è che in Italia l’unica cosa a cui si può ambire è una degna sepoltura. Queste battute finali, che sfoceranno in una scena di violenza e morte, ricordano il dialogo tra Nicola e il Professore ne La meglio gioventù (2003) in cui il professore suggeriva allo studente di fuggire dall’Italia perché “l’Italia è un paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire”. L’unico personaggio che ottiene quello che vuole – sebbene per un istante molto breve – è Ovidio, con un sogno concreto (i tre loculi). La speranza di Ginesio di trasferirsi nella capitale naufraga con il venire meno del gruzzoletto, mentre Maria Guglielma non riavrà mai indietro la sua tiella perché il suo Godot (’a francise) non si presenterà. L’Italia messa in scena da Torre è un’Italia alienata, arretrata, ossessionata dal cibo e imprigionata in riti ormai privi di senso.

Spettacolo visto il 15 marzo 2024 presso il Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

Scritto e diretto da Mattia Torre; produzione Marche Teatro, Nutrimenti Terrestri, Walsh; scene Francesco Ghisu; disegno luci Luca Barbati; costumi Mimma Montorselli; assistente alla regia Francesca Rocca; movimenti di scena Alberto Bellandi.

Debora Sciolla

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