La perseveranza della lotta nella perseveranza della bellezza. Gerald Manley Hopkins e il respiro di Dio

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“voi stanchi, venite dentro l’ombra”.

L’inganno dell’uomo solo nel dibattito di una finitudine che sembra rimare con l’abisso, di una identità continuamente violata nell’affermazione di un contemporaneo che procede per negazioni essendo per pochi, l’incessante sforzo della poesia, nell’iscritto pungolo nel dialogo con la fede e con una fede appunto che la chiama a dirsi, resta nella rimemorazione di quella stessa identità nel circuito della sua originaria impronta, che è di bellezza.

Una bellezza come è, restituita all’interno di quella disputa, dove ogni soffocata pienezza colta al buio dei legami, ha dapprima nella consapevole distanza tra gli esseri, nella separazione dal suo Creatore il perché del suo grido nella perseveranza del richiamo.

L’uomo, nella fragilità dell’esistenza tra patimenti e legittimità delle aspirazioni, ed un Padre, ora nell’illazione di una avvertita e ringhiata assenza ora, come da appartenenza, nostra evocata e riconosciuta soluzione.

Questo però  nel riflesso di una relazione che se ha limite nel cuore umano pure in quello stesso cuore, in quello stesso limite è tutta la verità di una tensione per la cui somiglianza siamo stati creati, di un’identità anche per questo altrimenti “sepolta sotto parecchi strati d’illusioni” (come direbbe dalle pagine de “La poesia e lo Spirito” Don Fabrizio Centofanti).

Di una bellezza, ancora, a smuovere lo scacco, nell’assertivo e riconosciuto emanarsi entro una perpetuata genesi, in quel rivelato dirsi di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio, che qui per la lotta della parola e dell’agire soprattutto entro le insufficienze dei propri fantasmi (ma anche delle proprie certezze) ha in Gerald Manley Hopkins l’esempio di una interrogazione che cadendo al proposito può aiutarci.

Sacerdote convertito al cattolicesimo, teologo, predicatore inglese audacissimo per la visionarietà delle immagini e della lingua, e al contempo apparentemente e terribilmente semplice nella sintesi del pensiero, resta la sua una figura centrale non solo della poesia del secondo ottocento ma anche di quella a seguire così come riconosciuto e guardato da tanti caposcuola (Eliot e Pound tra gli altri).

Una sintesi dicevamo racchiusa tutta nell’intreccio di tre temi fondamentali: Dio, la bellezza, il peccato. In un movimento tra l’incombente, veterotestamentaria presenza della paternità divina e l’incarnato amore di un Figlio nella cui misericordia riparatrice è la grazia di uno Spirito volto all’uomo nell’ispirazione edificante; l’animo, lo sguardo in continuo battesimo, in quella varietà d’ognuno in cui ad ognuno dello stesso Padre è apprestato il codice.

Ed allora”la tormentata celebrazione della bellezza come emanazione del divino e della natura, rivelazione di Dio ai sensi umani” come Augusto Guidi nella introduzione per Guanda  della prima edizione delle Poesie e prose scelte ebbe a sottolineare, lo stesso Guidi poi però veloce anche a indicare il senso del peccato intimamente iscritto nella relazione con quella bellezza.

E che tra tanto dire critico Alida Airaghi ha ben saputo esprimere come disarmonia e irrequietezza spirituale, arbitrarietà di giudizio laddove l’autore inglese, “creatura effimera e fallace” non fa che riconoscere se stesso. Mancanza d’adesione dovremmo aggiungere, o distonia tra bellezza soggetta a corruzione perché effimera e fallace se ferma al tener “caldi gli spiriti dell’uomo alle cose che sono” (si legga in ” A che serve la bellezza mortale?”), e la bellezza nel suo grado superiore di Grazia di Dio al cui desiderio tutti sono elevati.

Inceppamento allora, se partiamo dai concetti base della sua poetica, tra “inscape”, l’armonia tra le cose create e “instress” la carica profonda che viene dal divino. Come se l’uomo per Hopkins più che nel rifiuto restasse bloccato a una sorta di infanzia spirituale, nel dibattuto motivo  di uno smarrimento come detto cui lui stesso a tratti seppe di non essere esente.

Come se l’uomo nella domanda e nella fatica non andasse oltre la soglia, la natura stessa ovunque ognuno sia chiamato a vivere sì in analogia col divino, trasfigurata ed eternata in Dio (ancora qui sovvenendoci Guidi) ma ai nostri occhi sempre nel velo, nella quotidianità di una condizione inaridita e macchiata dai traffici e dal dolore.

Un dolore pienamente espresso dal gesuita di Stratford nei tanti ritratti di uomini e donne, di un’esperienza di sterilità e violenza che soprattutto a Liverpool nel suo servizio ebbe a vivere e al cui proposito, nella sottolineatura del degrado sociale sono i versi dedicati ai senza lavoro quelli più esplicativi perché banditi, esiliati da ogni gloria terrena; nulla essendo, nulla avendo se non un comune affanno che genera il miserabile dalla disperazione: “dalla Rabbia, l’uomo-lupo peggiore”.

Il lavoro così espressione insieme di dignità e cooperazione a quella stessa bellezza di cui nell’esilio altrimenti siamo estirpati, non riusciamo a dar frutto, nella preziosità dell’unicità in noi riposta e che mancando procura un eco di oscurità nel lutto.

Allora nella prova dell’antica Alleanza, ecco la lotta di Hopkins col Padre, ecco la fede nel Cristo, vero Dio e vero uomo, maestro d’amore e umiltà al cui mistero pasquale a proposito di frutto guardare, cui rivolgersi dove la solitudine è a rischio.

Perché tra l’altro, e qui è l’anonimo della imitazione di Cristo a guidarci, “la natura è astuta, seduce molti, li illude, li inganna ma lo scopo è sempre quello di arrivare a se stessa. La grazia, invece, si muove con semplicità.. non prepara tranelli, ma fa tutto e soltanto per Dio in cui trova la sua felice conclusione”.

La risposta allora se ha nella povertà della spoliazione la nudità di una contemplazione, del Padre certo e dell’opera che in Lui si rivela, e che lo rileva (del mondo senza dominarlo allora nel giusto senso che da Lui proviene e a Lui rimanda), pure di contro nell’abbassamento della disputa, nel dire di una parola che non si eleva ma in realtà a nostro dire abbassa e trattiene non può che essere nella mistica di una lingua che s’intorce, esorta e avviluppa, smentendosi anche, nella vertigine ricchissima dei suoi infiniti strumenti.

Il tentativo drammatico, dal cui sfondo è possibile avvertire tutta la malinconica tonalità insieme del fallimento e di tutto il suo umano rilancio, è nell’implorata domanda a non cessare di completare, dove non c’è corresponsione (nel ghermire di una morte che da Lui e da noi stessi allontana) “la tua creatura dove essa manca”.

E si ritorna a Cristo, nuovo Adamo, in cui tutta la Creazione risorge e si compie, “la sofferenza diventando viatico per la salvezza” (di nuovo la Airaghi), la poesia forte infine della sua insufficienza modello nel trascendersi di accettazione e remissione, seppure Padre Hopkins nel continuo elastico di oscurità e illuminazioni.

Così quel verso, significativamente rivelatorio di uno sgomento dell’anima di fronte a ciò per la cui vastità appare inaccessibile, “nella lieve foglia dell’Ostia, la sua troppo immensa divinità”, in realtà va a rovesciarsi, ogni cosa parte di una sbocciante bellezza che tende a Dio proprio nel servizio al figlio (nostro “riscatto e riscossa, primo, certo, ultimo amico”).

“Ciò che faccio sono; per questo venni”, dunque, nella singolarità del compito, nella cura che ne consegue, la poesia stessa nell’avvertenza di un discernimento non astratto delle ispirazioni nell’animo umano (la letteratura ha a che fare con il male come avrebbe poi ricordato il Cardinal Newman)

Serbare la grazia attuando lo sguardo di Dio, questo è in luogo del dubbio, di una mente che “ha montagne; rupi precipitose”, in un cuore che ha in Maria (in queste strofe nella cadenza della preghiera tanto evocata) che non aggira il dolore ma lo attraversa il perché della vita.

Il timore nel Padre affidato alla misericordia potente e feconda del suo amore, alla speranza nel germoglio come il chicco che gettato a terra morendo “produce molto frutto” (Gv12, 24-26).

In Hopkins infatti la lotta ingaggiata è sempre all’insegna di una determinata volontà a non cedere, a non disfare ” se pur lente siano, queste ultime corde d’uomo”.

Ed è anche per questo che lo sentiamo a noi contemporaneo, così vicino, nel suo esempio di anima che si vuole e si sa senza fine perché non sola, figlia di un compimento per cui il suo fattore ha dato tutto il coraggio e la forza per esercitarlo, e per combattere, anche contro di lui, nella strattonata richiesta delle interrogazioni entro l’universale condizione di smarrimento, e spesso anche di disperazione, di un tempo chiuso nella sua angusta casa di ossa, lacerato nel senso del sacro.

E per cui nel canto va a rimemorare e a chiamare a raccolta tutta la sua speranza, virtù in cui è attesa e riposta nella fiducia tutta la felicità dell’eternità della Promessa.

Laddove, secondo non più sfumanti primavere, “gareggiano gli agnelli e han bello il balzo”.

Gian Piero Stefanoni

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