«Nascerà un’opera da questo silenzio a lava sarà, su animo lieve
Andrà a sconfiggersi tra piccoli anfratti e uscite secondarie
Scaverà un letto di pietra solcando in battito lo spazio del non detto
Restare in un punto è già perdersi in esso
Non tace più la folgore né il necrologio di un giorno scelto a suo perimetro
Passa attraverso me il gancio e non può non definirsi che celeste sfacelo
Se non andrà perduto nulla, altro si aggiungerà al vuoto
Si scorgerà in profilo madido, la Torre, del cui rigoglioso fiorire
regna ora spenta eco»
(“Incipit” di “Indice di immortalità”, Prometheus, Milano 2023)
Ecco che già a incunabolo d’ogni altro esito, l’Autrice suggerisce qual è la scaturigine di questa complessa opera, composta non da parti insulari ma da elementi in dialogo costante tra loro e omocentrici a uno stesso nocciolo creazionale. “Indice di immortalità” sembra essere la costola del precedente “Materia redenta” e, come tale, non mera derivazione di ciò che le è pregresso, ma sua naturale e ulteriore estrinsecazione poetica, ferace e seminale, popolatissima di simboli e profondità sapienziali, e già annunciata in queste parole: “Sappiamo della nostra presenza / ma non ci coglie / impreparati / il vuoto trafelare dei giorni / quando per ignoto sentimento / il ciglio della strada / ammette il suo travaglio / e slarga l’orizzonte.” (da “Materia redenta”, silloge poetica dell’Autrice). E il vuoto cui qui si accenna, così come nell’Incipit, non indica un “non-essere”, un nulla assoluto, quale mancanza e attesa di qualcosa preesistente il vuoto stesso, ma annuncia il proprio avvento in quanto attingibile là dove deve essere testimoniato per divenire creazione. Così, se si vuole, l’incipit non è inizio arbitrario, bensì qualcosa di più puntiforme e atavico: descrive l’abbrivio del dire in una zona aurorale di assenza del detto e magmatica compresenza non ancora risoluta a una forma individuata. Qui il tempo non può che ingenerarsi in guisa erratica, prendere posto nell’alveo della parola fluendo attraverso l’enigma, fondo e spesso interdetto al dire, che è la vita. Inizio che pare sommuovere ciò che è decantato da evi di vita, stordisce e inebria, accrescendo quel mistero cui si accennava, coniugando in chiave prismatica ogni gesto cognitivo nella molteplicità delle manifestazioni, cosicché ogni elemento sia accidente e, nel contempo, parte di un reticolato che non ha direzione ma sussiste quale fibra viva e sinergica. Nervino ganglio di un esistere non gerarchico, senza centro, e dispiegato in versi diffusi e tonali che lo rendono simile a vivente creatura. Le figure di riferimento (Holderlin, Cechov, Jung, Rilke, Isaac il Cieco, Leopardi, Omero, Simone Weil e altri ancora) non portano l’autrice all’uso di bizantinismi, suggeriscono semmai indizi, ispettive movenze, con presenza discreta, insostituibile e non decidua ma “espressiva” al massimo grado e tale da essere inconsumabile. Nel doppio senso di non fruibile e non intaccabile dal trascorrere del tempo.
L’Essere, poi, diviene promanazione dello stato cosciente e il sogno allegoria della vita; la Poesia, occasione distintiva e irripetibile di porsi al limite dell’esprimibile e del percettibile, di sperimentare una forma aperta in cui ogni parte dialoga con l’altra entro un’architettura che sfida ogni gravità, si erge oltre tempo, con gesto creativo e totale, fuori dal contesto logico-verbale apodittico e misurabile, risiedendo nell’assertività creazionale pura. Ciò che è più defilato ha qui cittadinanza e statuto di esistenza quasi privilegiato, come se la parola lo sottraesse all’inciampo di essere scandalo per ragioni che si vogliono risolutive ed epitome compiuta.
Con delicatezza ricca di acribia presso i giochi quasi tattili di luci e colori, di sinestesie infinite ed echi di mondi lontani, Marina Petrillo pennella qualcosa di vivo che reclama vita a sua volta, e non partecipa di sé se non in ciò che è sempre anche altro sotto la cortina dell’abitudine, del consueto, e attende di essere nudato. Qualcosa da testimoniare perché non giaccia nel cono d’ombra di una minorità presso gli sguardi di una vita: ciò che sembra minuzia pare qui infinita sentina di compiutezza, e ciò che è conchiuso reclama altro status da quello delineato dalla stasi di un osservare abitudinario. È questa una scelta formale e tematica permeabile e che permea, non figlia del purismo ma volta agli umori e alle essenze del vivente in forma ibrida e non compromessa da omissioni ingenerate dal timore della contaminazione. Ed è contaminazione anche tra sogno e reale, dove il sogno più perlaceo è deputato essere il momento di massima lucidità, che denuda della sua opacità ciò che vige nella veglia, gravata dai sedimenti di una vita… “Non teme segreto… Tra lente liturgie quotidiane… Al candore del primo canto, allinea lo stato di presenza, preludio alla gioia fiorita in sogno e poi dileguata”. Sogno desto, allora, che desta la vita al sognare e sogno perduto di cui riappropriarsi fuori dai dedali del consuetudinario. Infinita nostalgia di un’aurorale, conchiusa bellezza interdetta al quotidiano che ne vela e nitore, e purezza: rotto incanto demandato ad altra ipnagogica reviviscenza in sentieri di onirici indizi presso la nullificazione e la creazione, che si reciprocano in un incessante flusso trasformativo senza soluzione di continuità. L’assenza diviene presenza e viceversa, la distruzione creazione e viceversa, per il verso del divenire. «Chronos è il tempo del divenire e del ricominciamento. Chronos divora brano a brano ciò che ha fatto nascere e lo fa rinascere nel proprio tempo. Il divenire mostruoso e senza legge, la grande lacerazione di ogni istante, la ruminazione di ogni vita, la dispersione delle sue parti sono legate all’esattezza del ricominciamento: il Divenire fa rientrare in questo grande labirinto interiore che non è affatto differente nella sua natura dal mostro che lo abita; ma dal fondo stesso di questa architettura tutta contornata e ritornata su se stessa, un solido filo consente di ritrovare la traccia dei suoi passi anteriori e di rivedere lo stesso giorno. E Dioniso può dire a Arianna: tu sei il mio labirinto…» (Michael Foucault, nell’introduzione a “Differenza e ripetizione” di Gilles Deleuze).
Così, alla serialità dell’uguale si contrappone l’identico, attraverso la ritualità e la circolarità del tempo, e il sedimento dell’Erfahrung si sostituisce alla barbarie dell’istantaneo e del frammentario, dell’atrofia dell’esperienza così come ben descritta da Walter Benjamin.
Questo pregevole lavoro poetico potrebbe anche richiamare la visione animistica che Giordano Bruno esprimeva della natura: ogni parte di essa porta in essenza l’armonia dell’Uno, ne è vivificata: in altre parole ogni manifestazione naturale è estensiva di ciò che è intensivo nel principio primo e universale. Ecco che il macro si riverbera sul micro e il loro rapporto è costante nonostante la mutevolezza. Va detto che in Bruno il legame tra il Principio Universale (Mens), il Creatore (Intellectus) e la Natura (Materia) è sempre molto stretto. La Materia, per assumere le diverse forme, non può far a meno dell’Intellectus, quindi quest’ultimo “empie il tutto, illumina l’universo e indirizza la natura a produrre le sue specie” (Giordano Bruno, De la Causa, Principio et Uno). In questo sorprendente testo, più in particolare nel dialogo quinto e conclusivo, l’analisi si sviluppa intorno alla differenza tra universo infinito e infiniti mondi ed enti che lo compongono (e in una prospettiva più squisitamente ontologica, sul rapporto Uno e molteplice). Fertile seme dal quale le infinite cose hanno origine, l’Uno è la sostanza unica, della quale gli infiniti enti non sono che circostanze accidentali. Sostrato eternamente identico, esso ha in sé implicitamente, come “ripiegata” (questo è il significato etimologico del verbo “complicare”), l’infinita serie degli accidenti, mondi, uomini, cose. L’infinità complicata nell’Uno si esplica (etimologicamente “si spiega”) nel tempo. Talché si può dire che l’Uno è tutte le infinite cose (complicatamente fuori dal tempo) e diviene tutte le infinite cose (nel tempo, explicatamente). Appare allora chiaro che l’Autrice dispiega ciò che nella sua poetica è “complicato”, rendendolo esplicito attraverso una visione pressoché panpsichistica della natura, che si avvale a tratti di una legge di analogia tale da cogliere armonia e equilibrio in tutto il vasto, variegato mondo delle manifestazioni sensibili; e il suo canto poetico raccoglie nel microcosmo della dimensione umana, quasi che fosse, con echi rinascimentali, epitome stessa dell’Universo (macrocosmo), tutta la mappa di un orientarsi tra forme visibili e non visibili, o forse semplicemente impercettibili: traccia di una matrice infinita che dispiega i propri accidenti, le proprie manifestazioni senza lasciarle orfane del suo segno divino. In questo ambito, la natura non viene, platonicamente, imitata dall’arte, perché l’arte e la poesia hanno il compito, piuttosto, di accoglierla in seno al magmatico, incessante e inesausto dibattersi dell’uomo in quanto creatura che trascende conseguendo un oltre simile a intenso sentore che inebria ma non si stringe in pugno.
Senonché, come scrive Deleuze in “Differenza e ripetizione”, dal punto di vista della (sola) analogia, tutto accade “per mediazione e generalità – identità del concetto in generale e analogia dei concetti più generali – nelle ragioni medie del genere e della specie. Pertanto, è inevitabile che l’analogia entri in una difficoltà senza uscita: nello stesso tempo, essa deve in sostanza riferire l’essere a esistenti particolari, ma non può dire cosa costituisca la loro individualità. Infatti, non cercando nel particolare se non ciò che è conforme al generale (forma e materia), essa cerca il principio di individuazione in questo o quell’elemento degli individui costituiti”.
Marina Petrillo sa anche trascendere la “selezione” analogica e improntare la sua poesia fuori dagli schemi di ciò che è generale, fuori dalla ripetizione dell’uguale, ovvero ripetendo l’identico in forma di dono. Perché ciò che è identico non si può riprodurre né serializzare, lo si può ripetere solo donandolo: come uno splendido manufatto, con la sua aura irripetibile e colma di memoria, nella poetica di Rilke o in quella della pittura di un Velasquez… Così la vera creazione abita il terreno di ciò che è indivisibile e irriproducibile, di ciò che può essere ripetuto identico a sé nel gesto, appunto, di donarlo.
Di pari passo, il gesto creazionale risiede, qui come nelle più recenti teorie cosmologiche, nell’osservare e nel testimoniare di qualcosa altrimenti in uno stato di quiescenza, mutandola in vita pulsante e dispiegata nello spazio e nel tempo. Se l’osservazione muta la struttura del sistema osservato, allora non si tratta di imitare, appunto, quanto di creare nell’atto stesso del cogliere attraverso lo sguardo. Questo sguardo non è una semplice scopia, ma l’esercizio indefesso e sollecito di chi plasma il linguaggio fucinando infiniti angoli di visuale su infiniti oggetti di essa. Proliferazione “rizomatica”, questa poesia non ha niente di arborescente, non procede per propaggini, ma descrive un disegno reticolare animato da vita propria, entro cui la comunicazione non è subordinata alla contiguità e ogni ganglio comunica con gli altri anche se dislocati altrove.
Lo stile, poi, è un mezzo di rifrazione di infiniti raggi di vita, tutto lo spettro dei colori di una espressività che mai ridonda e restituisce la fisionomia del conosciuto in bilico con l’inattingibile. Orma di un plesso dialogante tra terra e cielo. Niente eccede, tutto ricade entro il raggio di un compasso sapiente. Le linee di questo asserito poetico mettono in rilievo il chiaroscuro dell’essente (in dialogo con ciò che persegue) non per accumulo ma per incessante gesto di tratteggio gemino di procedure senza fine, e sollevano al cielo lo scheletro del mondo, non si piegano all’impellenza di un segno unico ma lo rendono traccia di una filigrana splendida e composita. Assistiamo alla composizione di un mosaico dove ogni tessera significa in relazione al tutto e dove questo tutto non ha forma conchiusa ma aperta, una sorta di composizione frattalica e autosomigliante che rende la complessità di insieme attraverso un ripetersi nelle singole geometrie e slitta sempre in forme nuove senza tradire le sue parti singole in termini di identità ripetuta.
In questo contesto i riferimenti sono ampi e non compongono solo una litania intellettualistica, ma il firmamento di valori, weltanshauung e moduli che costituiscono un viatico solido per il viaggio dei viaggi: quello compiuto oltre le Colonne d’Ercole della stagnazione e di una poetica anodina, scoprendo terre nuove a cui assegnare un nome e il giusto spazio, sempre rivedibile, espresso da territori ignoti; perché sempre si tratta nell’umana vicenda di definire e ridefinire territori propri, abitarli con senso panico e gestazione continua di prospettive nodali, gangli di vita che parla e si annuncia fuori dal solco del consueto.
Questa poesia, rigorosa e mai turgida, si avvia con coraggio a ciò che più è prossimo all’indefinibile, imponderabile addimora lo straniamento tra ciò che giunge mutato e lo stato altro, che attiene alla perfezione dell’animo: spera identitaria che agisce tra cognito e incognito; adagiarsi su tale asse declina il sentire di un fremito creativo che coniuga i saperi, li tralascia, denudandoli dalla veste interpretativa in un pulsare caleidoscopico di immagini, percezioni, antiche conoscenze. La natura stessa sembra essere suggeritrice iniziatica di un percorso verso la reviviscenza di una identità consapevole e ferace di minuta osservazione, tale questa da ricreare il visibile, generare nuovi spazi e cosmogonie senza limiti di proliferazione.
È un linguaggio inedito che non muta solo forma cambiando pelle ma si sostanzia entro un ordine qualitativamente altro a livello simbolico e materico al medesimo tempo, ed esprime uno specimen cognitivo deflesso dal tempo concepito come contenitore di esperienze e, linea orientata sul tappeto di concezioni deterministiche pure. Qui non si tratta di cause ed effetti, ma di creazione ed esternazione, abbondanza di sé e gesto gratuito dell’offrire entro e fuori dal disordine proteiforme della vita. Così il tempo, in Indice di immortalità, è vastità non neutra e sempre tale da addimorare un senso arioso dalle molteplici declinazioni di direzione e vita; vita raccolta nell’alveo di un avvenire che estrinseca, dal fondale dell’indistinto, la forma poetica come vessillifera di un varco in esso, un’uscita e una prospettiva che non si consegue se non raccogliendo e testimoniando dell’evento fuori dal solco del mero accadere. Lo spazio invece è paesaggio espresso, colto e da abitare nella parola.
Una poesia così fatta è mano felice che partecipa del divino là dove esso si comunica in modo incessante all’universo. L’Agape di questa poetica sospesa tra divino e umano testimonia della forza liberatrice di Eros, ma anche della liturgia umbratile della sospensione del rigore.
L’opera di Marina Petrillo è percorso iniziatico e possibilità di risoluzione, definitiva e nuda, promiscua e pura come ossidiana. Sogno febbricitante e incauto, diagonale ma non obliquo, maieutica e canto che conducono a una vibratile e vibrata significanza nel diapason sensivo di un sodalizio tra etereo e concreto: i sensi tutti che confluiscono in dinamismo percettivo fino all’estenuazione. Bella, tortile e composita è, la sua poesia, come il fiore dei poeti.
Espressione poetica ricca di abbrivi, dunque, intermittenze, visioni che sfiorano il vaticinio, rendono misterico ciò che torna in pura immagine come presenza di sé e riverbero di vita, incoercibile grandezza di un regno di epifanici, messianici compimenti di senso fuori dal neutro tempo lineare, pervasivi e pervasi da divino silenzio che accoglie e non si manifesta come assenza ma come possibilità stessa della presenza di enti. E questo viaggio poetico, questa via iniziatica, è gremita di astri del pensiero, dell’arte e della cultura tali da non comporre un semplice firmamento ma, da orientare e essere viatico per l’autrice, chiamati a rivivere, quasi di voce propria, all’interno degli interstizi e delle pieghe di una poesia che si fa paesaggio di un presente possibile per loro e per la loro fulgida creatività fuori del tempo evenemenziale e di un esserci storico oramai estinto.
Il sorriso del Puer nel finale dell’opera sembra richiamare la fase terza del paradigma nietzschiano che testimonia di un “Sì” imperioso e gratuito alla vita. Se il cammello sopporta pesi grandissimi per “dovere”, e il leone ruggisce il suo “No” rifiutando ciò che è consolidato, il bimbo è creatura arresa alla bellezza poetante della vita: egli non ama i paragoni e ciò che è derivativo, non interiorizza e rimugina, non è risentito, abbonda di sé e non ha bisogno di negare per erigere il proprio canto di vita sorgivo, splendido e non piegato a nessuna morale dell’utile.
Così il “Puer aeternus”, accompagnato dal Sapiente Dioniso, mostra come l’Assoluto spirituale include in sé la totalità delle cose in perfetta unità!
Massimo Triolo