Festival di Venezia: Il dramma dei desaparecidos in Brasile
Lido di Venezia, 1 settembre
Il dramma dei desaparecidos delle dittature militari sudamericane degli anni ’70 rivive nel commovente “Ainda estou aqui” del regista brasiliano Walter Salles, che interrompe un silenzio registico di 12 anni, escluso il documentario del 2015 sul regista cinese Jia Zhang-ke.
Ispirato all’autobiografia di Marcelo Rubens Paiva sulla scomparsa di suo padre, l’architetto ed ex deputato Rubens Paiva, il film si concentra sulla distruzione della felicità di una famiglia, madre e cinque figli, le cui vite cambiarono totalmente con il rapimento del padre da parte della dittatura brasiliana nel 1971.
La vedova cercò incessantemente di scoprire il destino del marito, la cui scomparsa non fu mai riconosciuta dal regime militare, negandole ogni indennizzo. I cinque considerati responsabili non furono mai arrestati né processati.
Salles, che in quasi mezzo secolo di carriera iniziata nel 1986, non si era mai occupato del tema della dittatura militare, colma questa assenza con un commovente film interpretato da una vera eroina come lo fu Eunice Paiva, che seppe mantenere l’unità della sua famiglia occupandosi anche dei diritti territoriali degli indigeni e del rispetto dei diritti umani.
“La autobiografia di Marcelo Rubens Paiva mi ha molto commosso perché mostrava come le storie dei desaparecidos durante le dittature militari non solo colpivano le persone assassinate ma provocavano anche effetti devastanti sui loro cari e sul tessuto sociale del paese, che difficilmente si cicatrizzeranno con il tempo” ha dichiarato Salles. Il ruolo principale è stato affidato a Fernanda Torres, figlia della grande Fernanda Montenegro, protagonista del suo film più famoso “Central do Brasil” e che oggi, a quasi 95 anni, ha una sentita partecipazione come Eunice anziana.
Nel concorso della quinta giornata del Festival di Venezia, il film è stato accompagnato dal più lungo dei 21 aspiranti al Leone d’oro, “The Brutalist” dell’ex attore britannico Brady Corbet, 215 minuti, quasi tre ore e mezza, per parlare della vita di uno dei più grandi architetti del XX secolo, l’ungherese Laszlo Toth, senza mostrare neanche una sua opera, nemmeno quella che occupa gran parte del film, il Centro Culturale Van Buren in Pennsylvania.
Corbet ha riservato a Venezia la prima mondiale dei suoi tre film come regista, iniziando con “The Childhood of a Leader”, premio De Laurentiis per la miglior opera prima nel 2015, proseguendo nel 2018 con “Vox Lux” e ora con questo “The Brutalist”, il suo film più ambizioso, girato in pellicola con lo splendore dei 70 millimetri di VistaVision, e interpretato da un Adrien Brody in stato di grazia che si è impegnato persino a imparare foneticamente l’ungherese del suo personaggio, mantenendo uno strano accento per tutta la durata del film.
Diviso in un’ouverture, tre atti, un epilogo e persino un intermezzo di 15 minuti, come i road movies di un tempo, il film evoca l’arrivo a New York del protagonista, un sopravvissuto di Auschwitz, e il suo lento adattamento a un nuovo ambiente, culminando nel riconoscimento del suo genio architettonico, il cui stile fu battezzato come brutalista per l’uso di materiali come il cemento armato, di scarso appeal visivo ma di grande economia e duttilità.
Ma è nella seconda parte che il film perde il suo ritmo narrativo, lasciando in sospeso la continuità che si chiude con il discorso della nipote alla prima biennale di architettura di Venezia del 1980, che rese il dovuto omaggio all’opera di Tóth, pionieristica e originale.
Per il pubblico in generale, la giornata è stata occupata da George Clooney e Brad Pitt con il film più divertente di questa rassegna, “Wolfs”, storia di due pulitori di scene del crimine, che promette di essere il primo di una lunga serie, come è consuetudine del suo regista Jon Watts, autore della fortunata trilogia di Spider-Man.
“Wolfs” è stata una pausa di facile intrattenimento in mezzo a film più impegnativi come “The Brutalist” e “Ainda estou aqui”, un emotivo ricordo delle tremende sofferenze inflitte dalle dittature militari sudamericane nella seconda metà del secolo scorso.
Grazie soprattutto a una sceneggiatura intelligente (dello stesso Jon Watts) e alla simpatia dei due interpreti, Clooney & Pitt, che, o per essere amici di lunga data o per decisione del regista, evitano di rubarsi le scene a vicenda, dando al film una solidità narrativa che è alla base del successo di “Wolfs”.
Clooney & Pitt sono due “fixers”, quel tipo di delinquenti che puliscono la scena di un crimine da ogni elemento probatorio contro i colpevoli. Convocato da una importante signora, testimone di un incidente fatale in una stanza di un hotel di lusso, un fixer (Clooney) è costretto ad accettare la collaborazione di un altro (Pitt), assegnato dalla proprietaria dell’hotel (una quasi irriconoscibile Frances McDormand).
Di malavoglia, i due si imbarcano in una serie di rocambolesche persecuzioni per il centro di New York, quando la presunta vittima (Austin Abrams) si risveglia inaspettatamente e li coinvolge in una storia di droga e di lotta tra bande rivali.
Il tutto con un’aria spensierata che è una delle maggiori qualità del film.
Antonio M. Castaldo