Lido di Venezia, 6 Settembre – È una curiosa coincidenza che i due film che completano il concorso nella penultima giornata dell’81esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Venezia facciano parte di una trilogia dei loro autori. Per la loro qualità ed originalità, questi film possono ritenersi veri e propri candidati inattesi per la premiazione finale, sovvertendo le previsioni della vigilia.
Wang Bing, nato nel 1967, è considerato il più grande documentarista cinese, non solo dal selezionatore della Mostra, Alberto Barbera, e da un candidato come lui al Leone d’Oro di quest’anno, Luca Guadagnino, che è uno dei produttori del film, ma anche da buona parte della critica mondiale e dagli appassionati di questo genere. Con il suo nuovo film, “Qing Chun (Gui)” (Gioventù: Ritorno a casa), conclude la trilogia dedicata ai giovani che lavorano in un’industria tessile del nord-est della Cina, Zhilli, vicino a Shanghai. Questa fabbrica, specializzata in abbigliamento per bambini per il mercato locale e internazionale, un tempo florido, è ora in piena decadenza, dovuta a metodi di produzione degni del capitalismo preindustriale, con padroni che pagano poco e male i lavoratori, quando non li lasciano senza adempiere ai loro obblighi.
“Kjaerlighet” (Amore) è, invece, la seconda parte di una trilogia dedicata alla sessualità, al desiderio e alla trasgressione, scritta e diretta dal drammaturgo norvegese di successo, Dag Johan Haugerud. La prima parte era stata presentata in anteprima all’ultimo festival di Berlino. “The Return Home”, come le sue prime due parti, è stato girato tra il 2015 e il 2019 e mostra la vita di questi giovani, a volte adolescenti, e dei loro genitori, che vivono, mangiano, dormono e fanno l’amore negli stessi luoghi in cui lavorano, locali malsani, senza aria condizionata, e con stipendi miserabili che vengono loro promessi dopo tre mesi di lavoro e che a volte non ricevono nemmeno a causa della fuga dei boss.
Da quando aveva 36 anni (ora ne ha 57), Wang ha realizzato film che documentano la vita miserabile delle classi emarginate in luoghi remoti che il maoismo prima e l’attuale regime ora cercano di nascondere per non contraddire l’utopia comunista. Per preservare la propria indipendenza ed evitare l’ingerenza delle autorità, i suoi film sono spesso prodotti da compagnie europee, soprattutto francesi e italiane, che gli permettono di denunciare con forza il regime in cui vive, senza compromettere la portata delle sue opere, che spesso durano fino a tre ore, quando non sono divise in trilogie come questa che durano sette ore e mezza e che hanno dovuto condividere i festival di Cannes, Locarno e Venezia.
Dag Johan Haugerud, 60 anni, divide la sua attività tra cinema, teatro e letteratura. Ogni suo film vince premi nel suo paese ed è campione d’incassi, ma è praticamente sconosciuto fuori dalla Norvegia. In “Love” si intersecano le vite e i destini di diversi personaggi: un urologo, un’infermiera, un geologo, la sua ex moglie, uno psicoanalista e un impiegato comunale, tutti affrontando momenti cruciali della loro vita, come una malattia mortale o decisioni lavorative o romantiche. Si parla di amore libero, promiscuo o senza impegno, senza che ciò implichi giudizi morali in dialoghi che potrebbero dirsi bergmaniani, se non fosse per l’assenza dell’angoscia e della mortificazione che il maestro di Uppsala sapeva infondere nei suoi film. Invece, questi dialoghi sono come un test di Rorschach in cui ognuno decifrerà o assocerà a modo suo l’immagine proposta.
Una caratteristica di entrambi i film è l’assoluta noncuranza della messa in scena. Wang osserva i suoi personaggi per quello che sono: esseri reali che esprimono la propria vita con le proprie ansie e speranze, mentre Haugerud si preoccupa di portare sullo schermo i drammi della vita quotidiana in cui gli spettatori possono identificarsi. Questa è stata la vera ed inaspettata sorpresa di questo festival.
Antonio M. Castaldo