Orontea di Antonio Cesti è l’appuntamento che il Teatro alla Scala dedica quest’anno al barocco. Anche il frequentatore d’opera meno provveduto, senza aver mai assistito a un’opera di Cesti, non può non ricordare nella storia della musica il musicista come l’autore de Il pomo d’oro, sontuosa festa teatrale data a Innsbruck nel 1668. L’Orontea ebbe la sua prima rappresentazione nel 1656 sempre a Innsbruck, versione che non è stata conservata. La partitura di Cesti diventa sempre più popolare e le rappresentazioni si moltiplicano nel corso degli anni seguenti sia al nord sia a sud d’Italia, ma anche in Germania. Tre i manoscritti italiani esistenti, unitamente a un quarto conservato a Cambridge. Il libretto è di Giacinto Andrea Cicognini con aggiunte più tarde di Giovanni Filippo Apolloni, impressionante per la capacità di descrivere con sottigliezza i vari caratteri, dalla seriosa Orontea, al fascinoso quanto immorale Alidoro, l’incostante Silandra e il fedele Corindo. Come si rispetti per un’opera del seicento, non possono mancare i caratteri buffi: l’ubriaco Gelone e la vecchia nutrice Aristea, personaggio che non manca in nessuna opera veneziana dell’epoca. L’opera di Cesti era affidata alle preziose cure del Direttore Giovanni Antonini che alla guida dell’Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici, raggiunge vertici d’intrigante coinvolgimento. Brillante direzione, sinuosa, capace di sviscerare la ricchezza di una partitura che giustamente fu una delle più conosciute del tempo, in una resa di costante bellezza di suono e proprietà di stile. Un esempio i duetti, calibrati fino all’estenuazione, fra Corindo e Silandra, ancor pieno di sfumature ed echi di monteverdiana reminiscenza, o quello fra Alidoro e Silandra resi con una sensibilità di accompagnamento a tradursi in perle di pura sensualità. Da rimarcare la lunga scena in cui Orontea ponendo sul capo la corona allo svenuto Alidoro, si abbandona a dolenti considerazioni amorose. Buono il cast, con Stéphanie d’Oustrac Orontea che impersona anche l’iniziale Filosofia, lacerto di un prologo che deve cedere spazio al precipitare della vicenda. S’immedesima nel personaggio della regina ma viepiù entra in quello della donna che si scopre fulmineamente invaghita e innamorata: sa farsi languida e amante, massimamente nella scena in cui evoca lo struggimento amoroso ai piedi dello svenuto Alidoro, combattuta dalle convenzioni del suo stato regale. Convincente, a onta di qualche fissità in acuto. Mirco Palazzi è un deciso Creonte anche a costo di spingere a volte sulla voce, con inevitabili stimbrature di suono e con dei bassi non molto sonori. Carlo Vistoli è un Alidoro di lusso, di piacevole timbro contro-tenorile innestato su bassi naturali che si concentra sull’interpretazione di un personaggio dal carattere polimorfo più che sulla resa belcantista che non offre, per lui, abituato alle spericolatezze vocali del tardo barocco, difficoltà tecniche di sorta. In Destin placati sciorina una pregnante intensità così come affascinante rende il duetto successivo fra Alidoro e Silandra, reso con precisione vocale e superbamente accompagnato da Antonini. In Care note amorose Vistoli da saggio delle sue capacità: omogeneità nei registri, ottimo legato e proprietà di coloratura. Francesca Pia Vitale presta un bel timbro a Silandra, sfoggiando preziosa “messa di voce”; lancinante e turbata negli accenti evocativi per il nuovo amante Alidoro. Flessuosa e intrigante in scena, Hugh Cutting Corindo di morbido e languido timbro, dal bel legato nelle raffinate arcate sonore, ma capace di rigore e giusta enfasi nel rimproverare l’amata d’incostanza amorosa. Luca Tittoto è uno spassoso Gelone, dall’ampio strumento vocale che usa a sottolineare la sciabordante comicità del personaggio, a volte dai tratti metafisici e stralunati, con sottolineature che sfiorano il parlato. Esalta il lato buffonesco dell’opera con un fraseggio sapido e padrone del significato della parola. Sara Blanch un Tibrino di volume limitato ma ottimamente impiegato; emerge nell’aria Or se dir resa in maniera scintillante. Esuberante Marcela Rahal nel ruolo di Aristea, classica presenza nel melodramma seicentesco, di saporita e spigliata presenza scenica e vocale, resa con una finale confessione dall’ingenua semplicità. Maria Nazarova spigliata Giacinta, di voce rotonda e penetrante, felicemente compresa del personaggio. Spettacolo firmato da Robert Carsen, scene e costumi di Gideon Davey, luci di Peter van Praet e dello stesso Carsen. Elegante e fascinoso fin che si vuole ma formalmente asettico di un decor fatto di quadreria che s’installa (e disinstalla) per un ipotetico vernissage. Regia calibrata impiegata su impianto girevole che mostra skyline in omaggio alla città. Carsen non trova di originale che tornare all’attualizzazione della vicenda non avventurandosi in una più impegnativa idea barocca. Immerge lo spettatore in un contesto di quotidianità già fin troppo vissuta, che non fa testo ritrovare anche in teatro, fatto di motociclette e assistenza sanitaria, lasciando languire la sensualità che si sente nel canto e scaturisce dal meraviglioso libretto, riccamente evocativo di fasti e superba regalità. Si fatica a comprendere perché sia disdicevole per Orontea, regina moderna, sposare un pittore, giacché tutto è conciliabile oggigiorno. Stridono le convenzioni teatrali: dove l’estetica barocca? Solo nella musica? E la meraviglia e lo stupore visivi? trova rifugio in un confortevole modernismo di astratta attualizzazione che non rende la profonda ambiguità del testo che viaggia su un duplice binario. Forse che non vale lo “storicamente informati” anche per la parte scenica? Per chiudere con l’ingresso di tumultuanti nel finale primo e terzo, a contravvenire la regola aurea di non sovrapporsi alla musica, relegata qui a mero sottofondo, senza riuscire nell’intento d’amuser le bourgeois…Tiepide le reazioni del pubblico, che si traducono in strati di poltrone e palchi lasciati malinconicamente vuoti alla fine dello spettacolo. Calorosa accoglienza per la compagnia di canto e il direttore Antonini.
gF. Previtali Rosti