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Trascinante MOSE’ in EGITTO al Municipale di Piacenza

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Rossini fece rappresentare al Teatro San Carlo di Napoli, il 5 marzo del 1818, Mosè in Egitto, “azione tragico-sacra” in tre atti, basata su racconti tratti dal libro biblico dell’Esodo. Il libretto d’Andrea Leone Tottola era ispirato da una tragedia di stampo edificante di Padre Francesco Ringhieri, Osiride, del 1747. Il contributo di tre grandi cantanti del momento, Isabella Colbran, Andrea Nozzari e Michele Benedetti, contribuì in maniera decisiva al successo, ma i trucchi scenici per simulare l’attraversata del Mar Rosso, visibili anche dalla sala, suscitarono sarcastiche risa di derisione. Un anno più tardi, per la ripresa dell’opera, Rossini approntò una seconda versione, andata in scena il 7 marzo 1819 e seguita da una terza nella replica del 24 febbraio 1820. In queste modificherà il finale del terzo atto, aggiungendo la celebre preghiera Dal tuo stellato soglio, che divenne immediatamente uno dei pezzi più conosciuti della storia dell’opera e uno dei motivi di predilezione, per le voci di basso, per il ruolo di Mosè. Gioachino Rossini rimetterà in musica l’opera un’altra volta, Moise et Pharaon, ou le passage de la mer Rouge la versione parigina, più elaborata e grandiosa rispetto alla semplicità lineare della prima composizione. Ed è questo Mosè parigino del 1827, ma in lingua italiana, che da allora è stato il più rappresentato in giro per i teatri. Omessi i balli e sfrondato del surplus di virtuosismo canoro per adeguarsi all’estetica di fine ottocento (cui importava una visione drammatica più completa), il melodramma rossiniano è stato in repertorio sotto questa veste fino ai recenti anni ottanta. Nella stessa Parigi la versione originale vide l’ultima rappresentazione nel 1865, dovendo attendere il 1983 per vedere Moise et Pharaon riallestito al Theatre de l’Opéra. La pubblicazione delle partiture critiche e la riproposta filologica della produzione seria rossiniana dell’ultimo quarantennio, ha contribuito in maniera decisiva a riportare in vita le due versioni originali, dopo che per tanto tempo si era ascoltato un ibrido musicale. Ha debuttato al Municipale di Piacenza una bella edizione di Mosè in Egitto, firmata dal regista Pier Francesco Maestrini, scene e video Nicolás Boni, luci Bruno Ciulli e costumi di Stefania Scaraggi. Un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena e Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia che si fa apprezzare per l’intelligente uso di una messinscena ottenuta con mezzi semplici, ficcanti luci, interni resi con video di ottima riuscita proiettati su velatino a rappresentare situazioni e stati d’animo. Il tutto con un tocco di naiveté che assieme ai pregnanti tableaux vivants già all’apertura di sipario, conducono e intrigano lo spettatore per portarlo alla teatrale e immaginifica conclusione spettacolare del passaggio delle acque del popolo ebreo. La direzione dell’Orchestra Filarmonica Italiana dal suono limpido e avvolgente era affidata al Direttore Giovanni Di Stefano dalla conduzione aulica e legata, capace di finezze e tesa alla ricerca di uno scavo interpretativo e dalla concertazione attenta alle voci, peccava forse di sbilanciamento sonoro nei momenti più drammatici. Da rimarcare la morbidezza del Coro Lirico Di Modena diretto da Giovanni Farina, commovente nelle implorazioni, sempre in encomiabile aderenza al dettato librettistico. Michele Pertusi, protagonista del titolo, offre oggi a Mosè una voce sofferta, svanito in gran parte smalto e velluto, solo resta timbro asciugato, privo di risonanza e morbidezza, “aperto” nella zona inferiore.  In Eterno, immenso, incomprensibil Dio fa valere le intenzioni sforzandosi di essere impositivo e potente nel fraseggio, ma non sempre riesce convincente. Nel successivo Celeste man placata, quintetto in cui la scrittura rossiniana si fa dente, tende a gonfiare i suoni per irrobustire il timbro ormai carente, salvandosi per la professionalità: gli acuti non squillano, come accade in Tu di ceppi m’aggravi la mano riscattandosi più per il fraseggio che per pregnanza vocale. A Dal tuo stellato soglio manca la maestà del comando e del capo carismatico, con uno strumento vocale non sempre fermo, s’impone nell’imponente ergersi in scena, ma al brano è venuta a mancare la magia e la spirituale atmosfera di cui il celeberrimo brano si è ammantato, la solennità ieratica del canto, supplita dal suo atteggiamento scenico. Tanta però la potenza del coinvolgimento suscitata dal brano che è stato bissato a furore e insistenza di spettatori. La ripresa dell’ensemble, con voce rarefatta e sommessa di tutti in palcoscenico rivela la potenza della finzione del teatro, abbandonando anche Mosè/Pertusi il mancato ampleur e l’enfasi del fraseggio imperioso e carismatico a pro di una più austera dizione che scaturisce dal fondo dell’anima. Ottimo Osiride è Dave Monaco, voce di tenore contraltino di sapore squisitamente rossiniano. Argento vivo in scena nel vivere profondamente il contestato amore, rende nel canto tutti i moti dell’animo di cui la passione amorosa lo travaglia. Nel prosieguo del I duetto con Elcia Non è ver rapisce per un canto di dolce astrazione: mentre il soprano canta“soltanto”, lui interpreta e rende Dov’è mai quel core amante in maniera elettrizzante e lo stesso vale per il duetto Parlar, spiegar non posso… che Osiride rende con vibrante fraseggio, per concludere con Non merta più consiglio in cui slancia le note in acuto in febbrile concitazione. Aida Pascu offre inizialmente a Elcia un timbro velato e leggermene intubato, diviene convincente quando affronta situazioni tenere e amorose, per farsi intensa e patetica nei momenti in cui si abbandona a un canto sommesso: Tutto mi ride intorno è impreziosito di filature, momento di puro belcanto nel duetto con Amenofi. Non così in quelle drammatiche, in cui tende a forzare il suono e gli acuti non sono mai rotondi e perfettamente timbrati. Nel duetto Ah se puoi così lasciarmi la Pascu mostra impeto e passione, mentre il tenore ha linea di canto più rossiniana, capace di acuti saettanti e squillanti, (anche se non immacolata la coloratura e suoni un po’ aperti) mentre il soprano mostra acuti mai ben fermi e rotondi. Nel duetto con Osiride Qual assalto! qual cimento la voce si fa vivo struggimento, oasi amorosa di puro lirismo e belcanto mentre in Porgi la destra amata da conferma della pregnanza raggiunta quando il suo canto si fa implorante e tenera supplica per l’amato, impreziosito da filati e mezze voci, ma non disdegnando di far ricorso a suoni poitrinè per ingrossare il registro grave. Amaltea trova in Mariam Battistelli una regale presenza; vocalmente sempre puntuale, raggiunge il vertice in La pace mia smarrita in cui si dispiega e giunge a un canto di perorazione, con il coro maschile, frammisto di finezze vocali (anche se tende a spingere in acuto). Andrea Pellegrini è un Faraone dalla voce sfogata e ben proiettata con giusti accenti di comando, sempre pregnante e credibile, voce immascherata così come lo sono gli acuti; spiace che nel finale dell’opera tenda a spingere il suono e marcare troppo gli accenti. In Cade dal ciglio il velo mostra omogeneità nei registri e mostra rotondo e corposo quello grave. Bene il resto dei personaggi minori, iniziando da Amenofi di Angela Schisano dalla voce limpida, Aronne apprezzabile di Matteo Mezzaro e Mambre di Andrea Galli dal non grande tonnellaggio vocale, che tende a cantare “aperto”. Successo festosissimo per tutta la compagnia di canto e il direttore, con ovazioni per Pertusi e Monaco, da parte di un pubblico caloroso e partecipe.

gF. Previtali Rosti

Foto di Rolando Paolo Guerzoni

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