L’ambizioso progetto di dotare Bergamo di un Festival degno della grandezza di Gaetano Donizetti è giunto al decimo anniversario e lo fa aprendo con Roberto Devereux, proposta tra le più interessanti del cartellone messo a punto dalla Fondazione Donizetti in collaborazione con il Comune di Bergamo. Nuovo l’allestimento, coproduzione con il Teatro Sociale di Rovigo. La locandina contemplava nomi di richiamo come Jessica Pratt, Elisabetta e John Osborn Roberto Devereeux. Dopo averla interpretata in giro per il mondo, il direttore musicale del festival Riccardo Frizza era sul podio dell’Orchestra Donizetti Opera portando sui leggii l’Edizione Nazionale realizzata da Casa Ricordi in collaborazione e con il contributo del Comune di Bergamo e della Fondazione Teatro Donizetti a cura di Julia Lockhart, pubblicata nel 2022. Roberto Devereux di Donizetti, ultima parte della trilogia delle “regine inglesi”, è la cinquantasettesima opera di Donizetti, su un totale di circa settanta composizioni. Una prolificità che in altri tempi è stata giudicata molto severamente, suscita oggi, alla luce della “renaissance” donizettiana, stupore e meraviglia. L’epistolario donizettiano, più di un migliaio di lettere, costituisce una fonte preziosa d’informazioni sulla carriera del musicista e i suoi melodrammi, ma è piuttosto avaro nel fornire indicazioni sulle fasi di composizione del Roberto Devereux. La causa è da ricercare nel momento di profonda crisi che l’artista stava attraversando in quel periodo. Nella primavera del 1837 Donizetti aveva firmato un contratto con la direzione del Teatro di San Carlo a Napoli, per un’opera che sarebbe poi stata il Roberto Devereux. Com’era spesso abitudine del tempo, non sapeva inizialmente il soggetto del nuovo melodramma; era solo a conoscenza che il libretto sarebbe stato scritto da Salvatore Cammarano. Il 1836 era stato un anno tragico per il compositore: nel giro di poche settimane morirono sia il padre sia la madre, mentre sua moglie Virginia aveva dato alla luce un figlio nato morto. Nel giugno dell’anno seguente un’altra gravidanza si terminò con lo steso esito, e fatto ancor più drammatico, il 30 luglio, a soli ventotto anni, Donizetti vede spirare l’amatissima moglie. Si può comprendere la forza d’animo di quest’uomo, disperatamente teso a superare il senso d’orrore e di catastrofe che sentiva attorno a lui, capace di continuare a comporre, di scrivere ai colleghi parlando di lavoro come se fosse la cosa più normale, lasciando trasparire gli echi della sua disperazione solamente nelle lettere che nel contempo scriveva al padre dell’adorata moglie scomparsa. La partitura di Roberto Devereux a fine agosto del 1837 era pronta per le prove, ma queste subirono uno slittamento di data: vuoi perché in quel momento Napoli era flagellata da un’epidemia di colera, e la gente non si chiudeva volentieri in spazi chiusi come i teatri, vuoi per i soliti problemi di censura, che non vedeva di buon occhio “un’esecuzione politica” messa in scena, dopo i disordini accaduti quell’anno. Le prove non furono permesse che dal 9 d’ottobre, e la prima si tenne il 29 dello stesso mese. Donizetti, come sua scrupolosa abitudine, sovrintese alla produzione, imperniata su un cast di prim’ordine, dalla Ronzi de Begnis al tenore Basadonna, al baritono Barroilhet. Il successo iniziale fu subito interrotto dalla malattia del baritono prima e della primadonna poi, tanto che Donizetti parlò di opera “jellata”! A pochi mesi dalla prima napoletana troviamo il compositore alle prese con una nuova produzione di Roberto Devereux, alla Fenice di Venezia, con la Ungher nei panni di Elisabetta e il celebre tenore Moriani in quelli del Conte di Essex. E’ la volta dei palcoscenici parigini, dove nel 1838 il Devereux fu presentato al Thèatre des Italiens, con la Grisi e Rubini; per questa produzione Donizetti scrisse l’Ouverture, una nuova cabaletta al duetto di Elisabetta e Roberto e una nuova aria tenorile per il terzo atto. Queste aggiunte non sortirono l’effetto sperato e i parigini rimasero tiepidi nelle accoglienze, mentre a Vienna, con una compagnia di canto incapace di calarsi nei ruoli dei personaggi, fu un “piramidale fiasco” come lo definì lo stesso compositore. Alla Scala l’opera approdò nel 1839 e, pur accompagnata da critiche negative, tenne il palcoscenico per ben trentotto recite! Bologna la vide in due stagioni, a Palermo fu eseguita in cinque edizioni diverse, a Roma in sei stagioni e meglio ancora a Napoli, che la ospitò otto volte, tra il 1837 e il 1866. Non a caso proprio da Napoli, nel 1964, partì il revival di Roberto Devereux, legato soprattutto al nome della protagonista, Leyla Gençer. Dopo di lei altre illustri cantanti si sono legate al ruolo d’Elisabetta, da Montserrat Caballè a Beverly Sills, Edita Gruberova, per citare le più importanti. Al regista inglese Stephen Langridge il compito di portare in scena la straordinaria figura della regina, innamorata, che tenne il potere per oltre quarant’anni: un melodramma di grande invenzione musicale e spiccata libertà formale nel superare le forme chiuse operistiche del tempo. L’impianto dello spettacolo pensato da Langridge, contemporaneo nella sostanza, trascende l’attualizzazione per orientarsi verso un mondo elisabettiano di fantasia, coadiuvato da Katie Davenport, sue scene e costumi, mantenendo forte il ricordo e il rimando al mondo elisabettiano lasciando intatta la libertà di sondare affetti e animi dei personaggi. Ottima regia, che isola e staglia, facendoli emergere dal pesante buio della vicenda, i singoli e principali attori del dramma, così come il Coro. Superflue le aggiunte del pupazzo e del “cruciverba” alla morte di Roberto.
Protagonista era Jessica Pratt che compare in un espressivo costume evocante la morte, con cui amoreggia e danza. La voce del soprano si è fatta oggi leggera, perdendo rotondità di volume, indirizzando il suo canto a delineare un’Elisabetta più belcantista che travolgente e impetuosa, ricorrendo a ingrossamento di suoni nel registro grave, nelle esplosioni d’ira o vuol dettare comandi. Mostra squisite capacità di tenerezza in L’amor suo mi fè beata in cui si abbandona all’esser donna, sviscerando la passione che la domina, obliando il potere regale ma in Ah ritorna qual ti spero non trova incisività d’accento, scegliendo di sfruttare un canto a mezza voce, flautato a rapire gli uditori più che vera pregnanza di fraseggio. Nuovamente amorosa nel duetto Un tenero core ma è il tenore a essere più convincente, sfoggiando ancora impeto melodrammatico. In Un lampo orribile non ha saette il soprano a fronte del generoso impeto del tenore, pur se vagamente superficiale. La Pratt forza costantemente i suoni in basso per simulare sdegno e potenza ma non riesce bene nell’intento; la voce mostra di non esser più ferma, mostrando sul medio forte insistenti oscillazioni. Alma infida ingrato core è risolta in accenti patetici, più piagata che intrisa di altero disdegno: smorza e raffina i suoni a meglio controllarli, evitando ondeggiamenti. Va sul capo è più enfasi spinta al parossismo, che vero e tremendo drammatico dire. La scena finale Vivi ingrato a lei d’accanto la vede dominare agevolmente, sciorinando piani e pianissimi a esaltare il drammatico momento, pur se gli acuti sono sempre tirati e spinti.
John Osborn Roberto Devereux fa valere la professionalità acquisita in questo repertorio; all’ingresso si fa notare per l’infuocata enfasi declamatoria anche se non d’incisività profonda e dal partecipe accento, trova i momenti migliori nel patetismo accorato nella scena del carcere: Come uno spirto angelico è commovente canto a fior di labbra, anche se fa ricorso a suoni sbiancati più che a reali mezze voci. Simone Piazzola è un Nottingham dalla voce sofferente con un timbro vagamente intubato che non gli permette di andare oltre la designazione di un generico marito tradito. In Forse in quel cor sensibile mostra fraseggio scarsamente nobile e di stile, con acuti costantemente “aperti”. Ottima Sara di Raffaella Lupinacci, dotata di bel timbro sonoro, la voce è ben proiettata, “corre” per la sala e squilla; risolve intelligentemente la carenza del registro basso con suoni poitrinè impiegati con discrezione ed eleganza ad arrotondare. Efficace in scena, intensa nell’espressività, capace di finezze in canto. Profonda partecipazione nell’iniziale All’afflitto è dolce il pianto, trascina il tenore nel duetto, concludendo al meglio nell’incontro con Nottingham e segnatamente in All’ambascia ond’io mi struggo, dagli struggenti accenti. David Astorga era un corretto Cecil, discreti Ignazio Melnikas e Fulvio Valenti, Un famigliare di Nottingham e Un Cavaliere. Alla guida della sferragliante Orchestra Donizetti Opera, il Maestro Frizza consegna una conduzione alterna, irruente e prevalentemente narrativa più che di scavo della partitura: accoppia a squisiti squarci lirici ed estatici altri di garibaldina irruenza e dinamiche sonore altisonanti. Coro efficace dell’Accademia della Scala. Festosissima accoglienza per l’intera compagnia di canto e per il Maestro Frizza, trionfale per Jessica Pratt. Al Teatro Donizetti di Bergamo.
gF. Previtali Rosti
Foto Gianfranco Rota