Nella ricorrenza delle celebrazioni dei 250 anni della nascita di Gaspare Spontini, la vivace provincia operistica italiana, grazie all’interessamento di quattro teatri, ha messo in cantiere un nuovo allestimento di La Vestale, Tragédie-lyrique in tre atti
del musicista nato nel 1774 a Maiolati (ora Maiolati Spontini) in provincia di Ancona. Una coproduzione Fondazione Pergolesi Spontini, Teatro Municipale di Piacenza, Alighieri di Ravenna e Teatro Verdi di Pisa. Sui leggii la revisione sull’autografo della Scuola di Filologia dell’Accademia di Osimo a cura di Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna – Edizioni Ricordi in collaborazione con Centro Studi Spontini di Maiolati. La Vestale è un grand-opera su libretto di Victor-Joseph Etienne de Jouy, basato su un passo dei Monumenti antichi inediti del Winkelmann. Il librettista non lo scrisse con l’intenzione di offrirlo a Spontini, ma a una cerchia di compositori che comprendeva Cherubini, Boieldieu e Mehul. Cherubini si pentì amaramente di aver rifiutato quest’opportunità perché La Vestale vinse il Prix Napoléon che consisteva nella somma di ben 10,000 franchi, mentre Boieldieu asserì che Spontini gli aveva “soffiato” il libretto. Beethoven, per finire, disse che quello della Vestale era uno dei due migliori libretti scritti sino allora. E merita tutta la nostra stima odierna, anche se in più occasioni è stato criticato per il “finale lieto” che Wagner, della cui partitura era grande ammiratore, tentò vanamente di persuadere Spontini a mutarlo, in occasione del revival che organizzò nel 1844. Il lieto fine è eticamente giustificabile ed esteticamente necessario perché Julia non ha commesso un delitto della gravità di altre eroine d’opera (Norma, Aida…) ma soltanto una colpa momentanea. La Vestale fu messa – sontuosamente – in scena per la prima volta il 16 dicembre1807 all’Académie Impériale de Musique (l’Opéra) raggiungendo cento rappresentazioni nel 1816, duecento verso il 1830 e, durante l’esistenza di Spontini, fu rappresentata in tutta Europa e negli Stati Uniti, nelle più diverse lingue oltre all’originale francese: in tedesco, italiano, russo, polacco svedese e ungherese. New York l’ascoltò per la prima volta al Teatro Metropolitan nel 1925, in lingua italiana, diretta da Tullio Serafin con Rosa Ponselle nel ruolo del titolo e fu addirittura scelta quale opera inaugurale della stagione 1925/26: Giacomo Lauri Volpi nei panni di Licinio accanto alla Ponselle. Scomparendo però dal cartellone del teatro americano dopo otto rappresentazioni diede l’impulso all’opera di riscoperta dei melodrammi dell’anconetano, collocando Spontini nel giusto valore di padre del più puro Grand Opéra francese – musica drammatica di somma potenza e forza immaginativa – che incontestabilmente merita a Spontini un posto d’onore nel mondo dell’opera lirica. Lodevole l’iniziativa di allestire e far conoscere un titolo purtroppo scarsamente rappresentato. A impersonare il ruolo della protagonista Julia era Carmela Remigio che con titanica volontà supera brillantemente il difficile impegno, travalicando i limiti della sua organizzazione vocale, mostrando grande partecipazione sin dall’iniziale Je sens couler me larmes, di palpitante comunicativa. Mostra tangibile spavento in Au nom des tous les Dieux in cui si percepisce come la fonazione francese le si addica e faccia scordare gli ondeggiamenti di voce e gli acuti spinti. Licinius, je vais donc te revoir intensa nel suo dire, travalica e supera, con un fraseggio martellante la limitata ampiezza del registro centrale. Al momento culminante di Toi que j’implore avec effroi, con il ricorso a suoni poitrinè, risulta più patetica che e ieratica, raggiungendo intenso pathos, meno statuaria e più febbrile d’amore, letteralmente trascinata dai sentimenti. Molto spigliata agisce la scena in tumulto di passioni, valorizzata da appropriato accompagnamento in orchestra. In Suspendez la vengeance, impitoiable dieux! piega la voce a intensa espressività, più tragica vittima che d’imperativa scelta, il tutto su un tessuto orchestrale di febbrile concitazione. Bene nel duetto con Licinius, L’amour qui brule, in cui il tenore smorza, ma la voce mostra scarsità di velluto, mentre la Remigio si travasa in una Julia sensuale nella sua classicità. L’aria finale del II atto O des infortunés déesse tutelaire è una commossa perorazione per la vita dell’amato. Toi que je laisse d’intenso patetismo è impregnata del ricordo di un amore (anche se tende a far troppo ricorso a suoni di petto), per giungere alla felice conclusione dell’opera con il duetto Sur cet autel sacrè. Al Licinius di Bruno Taddia non fa pregio un’affascinante timbro, e sin dall’iniziale La nuit acheève mostra caratteristiche di un amante quasi stilizzato e di natura un po’ stereotipata, più artefatta che veramente eroica o amorosa. Spinge troppo sulla parola, per mascherare centri modesti, nel duetto Quand l’amitiè seconde e tende a sbiancare più che far valere vere mezze voci, e gli acuti sono tendenzialmente opachi. Agisce in scena senza riuscire pienamente convincente. Joseph Dahdah è Cinna dal timbro rotondo e pastoso, dalla bella linea di canto e dalla perfetta dizione francese; buon legato e capace di sfumato fraseggio. In Ce n’est plus le temps dispiega la bellezza del timbro e il colore di voce: sicuro negli squillanti acuti grazie a un buon immascheramento. La Grande Vestale era Daniela Pini dalla fascinosa presenza, in un costume splendido che portava con solenne proprietà e atteggiamenti da ottima attrice. La voce suona un po’ vuota e opaca nel medium ma, pur tendendo a suoni poitrinè, suona sempre efficace. Fille du ciel con coro femminile è momento di sospensione eterea e ancor più in L’amour est un monstre barbare dove trova convincente fraseggio, con grand’impegno e impeto, e dai giusti e accorati acuti, suonando la voce meglio nel registro acuto. Le Souverain Pontife di Adriano Gramigni ha voce profonda, di bel timbro, imponente in Peuple, cessez vos jeux sempre attento alla parola e ancor più in Du céleste courroux. Travolge Licinius nel duetto C’est a toi de tremule. Le chef des Aruspices e un consul sono affidati al puntuale Massimo Pagano che in Magnanime héros trova il suo momento personale. Sempre ampia e profonda la direzione del Direttore Alessandro Benigni, a patire dalla maestosa ouverture, sia nell’aderenza e nella varietà di colori sia nell’appropriata ampollosità e giusto impeto che scaturiva dal gesto energico. Buona la resa orchestrale dell’Orchestra La Corelli, anche se i fiati non erano sempre calibrati. Preciso il Coro Del Teatro Municipale Di Piacenza diretto da Corrado Casati. Regia coinvolgente ed efficace, nella scelta di pose statuarie e ombre e sfruttamento di veli; scena fissa funzionale e costumi splendidi, tutto per la firma di Gianluca Falaschi Sconclusionate coreografie di Luca Silvestrini, ottime luci di Emanuele Agliati. Festeggiamenti calorosi per tutta la compagnia di canto e il Direttore d’orchestra, con ovazioni per Carmela Remigio. Al Teatro Municipale di Piacenza.
gF. Previtali Rosti