La Valigia, sottotitolo In viaggio con Dovlatov, è lo spettacolo che Giuseppe Battiston porta in scena nell’adattamento che con Paola Rota, anche regista, ha fatto dall’omonimo testo di Sergej Dovlatov, traduzione di Laura Salmon. Una produzione Gli Ipocriti di Melina Balsamo, scene Nicolas Bovey | costumi Vanessa Sannino | luci Andrea Violato | suono e musica Angelo Elle. La Valigia è ricavata da una serie di autobiografici racconti dello scrittore russo, emigrato negli Stati Uniti e morto non ancora cinquantenne, che nasce dai ricordi evocati dagli oggetti presenti nella sua valigia di emigrante. La valigia è una chiara metafora dell’umanità che da sempre si sente emigrante, nel distacco non solo da un paese ma anche e soprattutto da un vissuto che ci ha caratterizzato, fatto di persone e sentimenti che il ricordo ci restituisce nella sua integrità. Ecco allora una valigia aperta, come noi, chiusa come noi, leggera o pesante appunto come ciascuno di noi, o la mirifica valigia del narratore (e qui tocca l’autore) saggia e leggera o la valigia dell’emigrante…Una storia quella raccontata da Dovlatov fatta di amore e disillusione del paese che ha lasciato alle spalle e di quello nuovo in cui riponeva tanta speranza. Amore e odio balzano irruenti nel dire di Giuseppe Battiston che da vita a una sanguigna galleria di personaggi e di voci, evanescenti e quasi irreali, che tornano a vivere grazie a ricordi ben radicati, sempre vividi e mai andati spersi. Evocativo di un mondo passato, che aveva fretta di abbandonare in nome dell’agognata “libertà” ma che in America scopre di non aver mai lasciato, perché profondamente parte della sua vita. Nostalgica citazione (in America non c’è nostalgia?) della libertà di bene e male; libertà tanto sognata e inseguita, ragione per emigrare, portando dentro di sé l’incendio personale. E lo scrittore, scrivendo dell’America – mix di bene e male – non può fare a meno di concludere che ci sono farabutti come in Russia ma meglio vestiti, forse neanche sempre… Battiston, in sapiente uso del filtro di distorsione recitativa e di umani tratti comici, da vita alla carrellata di personaggi che fuoriescono, come dal cilindro del prestigiatore, dalla valigia di Dovlatov. Incessanti movimenti in scena, saltando da un microfono all’altro, rendono la poliedricità e l’inquietudine del vivere di ognuno di questi. Impiega spettacolare polimorfismo vocale a rappresentare i diversi soggetti: dal conduttore radiofonico, emblema di un’America uno, nessuno e centomila, che invita a portare su un altro pianeta degli oggetti, ossia le memorie o personificazione di persone amate, a Fred gaio soggetto che gli fa toccare la forza iniqua del denaro. Si fa intensa la gesticolazione dell’attore friulano a caratterizzare quelli che seguono: dal vetriolesco direttore di giornale (guarda caso sempre rappresentato con la mano sulla bocca, a emblema di un megafono) al cugino dipinto nella sua sgangheratezza prima e aristocrazia del dire poi. Al compagno Ciurilin che lo ferisce, alle stenografe, al matto di turno che poi così matto non sembra, alla silente moglie sempre presente e assente, dipinta con poche pennellate e tocchi. All’utopico regista che sceglie Dovlatov e lo identifica in un reincarnato Zar Pietro il Grande, stranito e straniato di ritrovarsi nella città da lui fondata come un alieno; alieni come spesso ci sentiamo anche noi in questo mondo, in cui facciamo fatica a identificarci e a sentircene parte. La fisicità verbale degli ubriaconi al chiosco, che altra non ne conoscono e l’aulica evocazione del grande attore Cerkassov, memorabile Aleksandr Nevskij e Ivan il Terribile di S. Ejzenštejn, in tenera e semplice comparazione di affinità e opposizioni di mondi umani, visti da una prospettiva di eterna rassegnazione e miseria. Battiston dispiega una tavolozza di colori vocali che permea la gran mobilità di viso, si fa pregnanza nei silenzi che dicon molto dello stato d’animo dello scrittore, al fascino delle pause. Un raccontator pantagruelico, debordante affabulatore, che irretisce gli spettatori nella storia di un “perdente” e di tutta quella galleria di squalificati con cui però riusciamo, anche solo per un momento a solidarizzare. Umanamente avvincente anche nelle leggerissime defaillances di respirazione: Torero squalificato, come si descrive lo scrittore e come s’identifica facilmente l’attore nel personaggio che viene a rappresentare. E quel giaccone, eredità preziosa di Fernad Legèr…Una recitazione tanto fisica da non sapere più dove il confine tra teatro e realtà, tanta la capacità di renderci lì, sulle tavole del palcoscenico, uno spaccato autentico di vita vissuta in altro tempo e in altro luogo. E la risultanza della forza dell’amore, forza sconosciuta prima allo scrittore, che pur dirompe quando vede la foto francobollo di lui appiccicata sull’album della moglie, in toccante e umanissimo ricordo di quel che poteva essere e per ignavia o rassegnazione non è stato. Spettacolo poliedrico e multiforme che lascia spazio alla fisicità dell’attore, che camaleonticamente s’imparenta e cala nei panni di Dovlatov. Calarsi dell’attore, immedesimazione, potenza del teatro di evocare, quando le capacità dell’attore sanno travasarsi nel testo. Sappiamo ben chi siamo e da dove veniamo ma non dove stiamo andando. Siamo un indice di qualità…parla e da ascoltare non c’è niente… e si spengon i riflettori. Trionfale accoglienza per Giuseppe Battiston. Al Teatro Franco Parenti di Milano, fino all’8 dicembre.
gF. Previtali Rosti