Calato il sipario su La Forza del destino scaligera

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Il Teatro alla Scala ha scelto La Forza del destino per inaugurare la Stagione d’opera 2024/25, titolo che mancava dal cartellone dal lontano febbraio 1999, diretta da Riccardo Muti. Dopo le prime recite di dicembre, dominate dalla presenza di Anna Netrebko, siamo tornati all’ultima replica di gennaio, interessante per un (quasi) completo cambio di cast. Molti dei libretti che Giuseppe Verdi ha musicato sono stati – soprattutto ai suoi tempi – sottoposti a critiche spesso feroci: nessuno però quanto quello de La Forza del destino che Francesco Maria Piave trasse da un vecchio dramma popolare spagnolo (che ebbe, questo sì, gran successo a Madrid nel 1835). La farraginosa vicenda narrata e il luttuoso soggetto, di cui il librettista ha calcato con mano poco felide gli episodi più truculenti, avrebbero fatto naufragare il compositore che avesse osato porlo in musica. Giuseppe Verdi al contrario ha saputo nobilitarlo con pagine d’indubbia bellezza melodica, che fan scordare i pezzi meno riusciti di tal rutilante mosaico. La prova è l’accoglienza festosa che il pubblico decreta a questo melodramma, ignorando le riserve dei critici. La Forza del destino fu rappresentata al Teatro Imperiale di Pietroburgo il 10 novembre 1862, riservando al maestro bussetano onori e splendide accoglienze. Poco dopo sarà Roma a tributare all’opera un caldo successo entusiastico. Il vero battesimo teatrale avvenne però alla Scala, dove La Forza del destino, riveduta, snellita, resa più organica e accresciuta di nuovi pezzi, andò in scena il 20 febbraio 1869. Fu un autentico trionfo, che il Maestro troppo modestamente definì “buon successo” scrivendo a un amico, aggiungendo “E’ certo che la Sinfonia, se l’orchestra è buona, e il Terzetto finale possono far buon effetto…La Forza del destino può considerarsi l’ultima delle grandi “opere popolari” di Giuseppe Verdi; si può anzi dire che, dopo il Trovatore, nessun altro melodramma verdiano sia penetrato così profondamente nel cuore e nelle orecchie di tutti, appassionati e gente comune. E la popolarità, a tanti anni dalla prima rappresentazione, persiste, a dimostrazione e patente smentita di chi, al suo apparire, la giudicò un “romantico intruglio”, un mix di cose belle miste a volgarità che non avrebbe resistito al vaglio del tempo e non avrebbe incontrato il favore del pubblico…In questa nuova edizione Elena Stikhina impersonava Donna Leonora dal caldo timbro e pulita linea di canto, voce che si estende in acuti non particolarmente penetranti ma sempre ben centrati, e dal registro grave leggermente velato. Capace di finezze vocali: “fila” con maestria, capacità di assottigliare il suono quando affronta con sicurezza note staccate o scoperte. In Me pellegrina, ed orfana è partecipe, offre un Madre, pietosa Vergine dagli accorati e palpitanti accenti – sostenuta da un ritmo orchestrale incalzante – mostra fraseggio di pura disperazione in Infelice, delusa, rejetta. Struggente il coro scaligero ne La Vergine degli angeli: poi attacca il soprano, in pura e commossa linea di voce. Dotata di buon piglio drammatico, appare solida nell’ottava centrale e in quella superiore e questo, abbinato a una generosità che non la porta a risparmiarsi, la rende convincente e adatta al ruolo, con il risultato di una passionalità sempre partecipe e credibile espressività. Il momento migliore lo trova in Pace mio Dio, di puro pathos e approfondito fraseggio: accenti toccanti, riuscendo a far vibrare la corda della passione. Entra Don Alvaro, Luciano Ganci, e in Ah, per sempre si rivela artista d’altri tempi: tenore che gode di un buon materiale vocale, ben proiettato e dallo squillo potente e saldo. Il gusto del suo canto evoca la scuola dei lirici spinti italiani degli anni Cinquanta del secolo scorso, quello di credibile e partecipe fraseggiatore ma che, tuttavia, deve trovare maggiori finezze nelle smorzature e mezzevoci. Concitazione febbrile e appassionato fraseggio in La vita è inferno… colorito di giusta enfasi melodrammatica e calda partecipazione in Oh. tu che in seno agli angeli, anche troppa che lo fa “deragliare” aprendo troppo e non controllando la linea vocale non più salda e ferma nel registro superiore. Travolgente la veemenza in orchestra. Nel successivo duetto con Don Carlo, Solenne in quest’ora, si è irretiti da accenti nobili e malinconici e il tenore, se non mostra perizia di mezze voci, sostiene bene il suono anche in posizione “da ferito”. Nel duetto dell’ultimo atto Le minacce, i fieri accenti, dà prova di fraseggio verdiano, romantico, accorato (anche se la voce sbianca) a fronte della non sempre profonda interpretazione del rivale. La Preziosilla di Vasilisa Berzhanskaya (dopo l’annuncio d’indisposizione) mette in evidenza quel che ha di voce, valendosi molto dell’intrigante e bel personale; se è vocalmente appezzabile ne Al suon del tamburo è sopra le righe nel Venite all’indovina e ancor più nel Rataplan, resi invece in maniera travolgente da Orchestra e Coro. Il Don Carlo di Vargas, si lascia ammirare per l’omogeneità e per il timbro del baritono della Mongolia Amartuvshin Enkhbat, ma lo smalto si è già in parte affievolito e gli acuti a volte schiacciati. Ci guadagna invece l’interprete, meno monocorde, che sa rendere palpabile il feroce odio del personaggio e, pur se ancor incompleto, il senso dell’onore del nobile spagnolo: le frasi sono articolate con più pregnanza. In Son Pereda s’impegna con grande impeto, e discreta finezza il cantante la trova in Urna fatale, giocata sul colore del timbro – salutata da un’ovazione – e successiva cabaletta tutta spinta a simular i contrasti dell’anima, ma priva di vero ampleur e nobiltà di fraseggio. È salvo! È salvo! è un’esplosione di belluina gioia; così nel duetto finale con Don Alvaro sono a confronto due scuole di canto e d’interpretazione: qui la linea di canto non basta più, ché gli acuti sono carenti di squillo. Generoso vocalmente Fra’ Melitone di Marco Filippo Romano, di godile strumento vocale e pur se la linea di canto indugia in qualche abuso o intemperanza stereotipata, è pur efficace nel rendere gustosa e sapida la caratterizzazione del personaggio. Simon Lim offre un perfetto phisique du rôle al Padre guardiano, ieratico e dal bel timbro rotondo di basso, voce ben proiettata, con facile discesa al grave senza ingrossare i suoni. Fraseggio toccante e spiritualmente interprete nell’ampio e maestoso legato di Venite fidente, aria impreziosita da finezza di mezze voci e nobiltà di canto, su un tessuto orchestrale intenso e tremendo. Squillante Mastro Trabuco di Carlo Bosi, ma si fa petulante quando interpreta il merciaiolo. Fabrizio Beggi è un marchese di Calatrava un po’ intubato, ma dal nobile accento. Xhieldo Hyseni è Un chirurgo dal bel personale e dal timbro cavernoso, Huanhong Li è un Alcade statuario mentre non più che corretta Marcela Rahal qual Curra. Efficace la direzione di Riccardo Chailly, di chiara impronta drammatica impressa a iniziare dall’ottima Sinfonia, tagliente e giocata su timbri cupi e tinte sombre. Una variegata tavolozza di colori mantiene sempre alta la tensione, già con l’elettrizzante concitazione dell’arrivo del Marchese di Calatrava. Ritmi serrati e momenti incalzanti, efficacissimi a tratteggiare il pregnante svolgimento teatrale, si alternano a finezze strumentali di punte ispirate e suggestive: una per tutte la pagina orchestrale che precede La Vergine degli angeli, con archi e violino solista lanciati in sonorità struggenti, che bilanciano l’eccesso di irruenza e sonorità di poche altre pagine. Stacchi sicuri e risoluti hanno offerto una lettura sanguigna e schietta della partitura di Verdi, senza, tuttavia che questa andasse a discapito del canto. Orchestra del Teatro alla Scala in gran spolvero. Molto bene il Coro scaligero nelle scene di massa, giungendo a punte di pura spiritualità nel Coro dei pellegrini e nelle partecipi, spirituali risposte agli ispirati accenti del Padre guardiano. Scena essenziale che circola a mostrare, in sequenze quasi cinematografiche, lo svolgersi sequenziale della vicenda, riducendosi a pochi segni a suggerire genericamente i luoghi della vicenda. L’idea registica e drammaturgica di Leo Muscato era basata sull’utilizzo fondamentale delle masse e la ricerca, tramite la stilizzazione dei movimenti, di un gusto un po’ manierato ed espressivo tipico del teatro d’inizio Novecento. Molto teatrali i tableaux vivants che venivano a costituirsi. Scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino e luci di Alessandro Verazzi. Successo calorosissimo per tutti, palpitante: la fiamma guizzante e gagliarda di Verdi ha travolto il pubblico presente, con ovazioni per Elena Stikhina, Luciano Ganci, Amartuvshin Enkhbat e Riccardo Chailly da parte di un pubblico che gremiva la sala.

gF. Previtali Rosti

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