Parlare di Anna Maria Curci è parlare dello studio e dell’esercizio della scrittura come studio ed esercizio della vita stessa laddove la parola della vita ne è rivolgimento ed origine, cardine mai scisso di un quotidiano vegliare ed insistere sulla soglia delle umane promesse. Pratica allora nel disciplinato educarsi alla potenzialità del frutto che esige, nel costume di una gioia che è già negli occhi, il rigore della custodia, la coscienza dell’esposizione e i suoi richiami a quel tutto di cui, compresi, ognuno ne è dichiarato ma compresso splendore. Parliamo di compressione per quell’affranto patire di cui la modernità sempre più nei suoi richiami di separazione, di antiumanesimo, va ad essere responsabile anche nei confronti di una natura che a ben affidarsi (non è ozioso ricordarlo) ha molto per ciò che è, per ciò che le è dato, da rammentare negli ammaestramenti delle sue metamorfosi. Non a caso la Curci, alla sua sesta opera poetica, dal dato sensibile di un esistente saldo e fremente nella sua fame di luce in questo assolo da qui riparte e si affida, docile e determinata allieva di grandi e piccoli sentieri, di infinite scorciatoie di canti cui, guidata da un contemplare facendo, l’azione è quella di un accolto comprendere (nel senso latino del racchiudere, dell’includere) cui nulla è rigettato, la rabbia o anche il possibile sconforto espressioni necessarie della coscienza in divenire del tempo. La parola stessa, la sillaba stessa risonanze filologiche di una non più latente oscurità ma di una concertata grazia nei cui singoli nomi- soprattutto quelli “delle mete intermedie” perché è nei passaggi la rivelazione del solco- sono le traccia in controluce delle aspirazioni, di vene e rive nel ricambio di “sguardi e segni di muta intelligenza”, di reciproche attese.
Questo fin dalla prima, omonima sezione, l’assolo allora non solo nella sua accezione musicale di esecuzione per sola voce o solo strumento ma di apripista, di indicazione solitaria al centro e agli incroci delle strade, di irradiata accoglienza. Che è poi a proposito ancora di parola e di ammaestramenti ciò che è nel quotidiano costume della cara Anna Maria, insegnante di lingua e cultura tedesca, e traduttrice finissima. E che qui nulla dimentica nel suo vibrante e orgoglioso andare; lei piccola ortensia, da un osservatorio che più che una “terrazza metafisica” come è stato scritto sembra un balconcino assai concretamente rialzato dalla sua terra, come in preghiera nella liturgia della voce. Voci che sono quelle di piccole e grandi storie, cui quella della madre tra sgomenti e vigore va a racchiudere gridandone la passione e quelle anche di una conquista a lasciar andare, sì nel nutrimento dal tutto ma anche dalla sua spoliazione giacché come mendicante viene a bussare a noi il mistero. Un mendicante che si accontenta di piccole cose, poche ed essenziali offrendone, nella ricerca delle “radici celesti” volendoci tutta una vita. Pochi versi anche, come nella sezione “Sommessi”, composta di haiku, dal cui affaccio al piccolo è dato per accettazione, nella rêverie, la sostanza di uno sguardo che si sa non finito: “rosea la luce/si sparge sull’abisso/e reca quiete”. Questa pace è la pace di un percorso in cui l’uomo e la donna sanno comprendersi nel tutto, in quel tutto da cui venendo nella cecità di spalle voltate non sappiamo più riconoscerci e che la Curci con sofferenza e forza nella gracilità di piccole ossa umane prova a richiamare in affondi di grande lucidità contemplativa. E a cui in conclusione andiamo a dire grazie invitando nel “tempo bisognoso del silenzio”a seguirne i passi:”Divinare nel transito i contorni/E dietro quelli le forme successive.//Sottrai moltiplica addiziona dividi:/le quiete acrobazia della tua mente/mostrami ancora tu dall’altra parte//trafiggono i passaggi la visione/oltre il dolore insegni a camminare”
Gian Piero Stefanoni