Capinera, ispirandosi a Giovanni Verga

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Giovanni Verga al vedere una piccola capinera rinchiusa in gabbia, lasciarsi morire per aver perduto la sua libertà, trasse ispirazione per la “storia della capinera”. E’ l’emblema dell’esistenza di Maria, giovane novizia, uccellino ferito privato della vita e di libertà decisionale che, allontanata dal convento causa un’epidemia di colera, assapora l’amore per gli spazi aperti e per il magnifico creato, prova il calore delle relazioni famigliari e travolta da un sentimento amoroso per Nino, un amico di famiglia. Questo il motivo scatenante che porta la sua matrigna a farla tornare in convento, tra le consorelle e pronunciare i voti. La pazzia, relegata nei sotterranei del convento, è il suo freddo destino, bruciata sempre in corpo da quell’amore per Nino. La vicenda si snoda nelle lettere che Maria indirizza all’amica Marianna, dove racconta la scoperta dei sentimenti per l’amato e il dolore per la forzata rinuncia alla vita. Liberamente ispirato all’omonimo romanzo epistolare di Giovanni Verga, Rosy Bonfiglio presenta Capinera, spettacolo/mise en espace stilizzato e onirico ma al tempo stesso intenso e coinvolgente. Messinscena singolare, dalle luci potenti, sonorizzata con l’ausilio di pregnanti musiche di Angelo Vitaliano, è punteggiata da voci anonime che raccontano di loro esperienze a costituire il tappeto sonoro dello spettacolo, presenti a porre l’accento e la temperatura degli avvenimenti. Bonfiglio anima a sbalzo i momenti salienti del romanzo e, attraverso la storia delicata e struggente di Maria, la tormentata protagonista, conduce il pubblico nell’atmosfera siciliana ottocentesca, ma di striscio, non concedendo niente alla nostalgica ambientazione di una Sicilia di metà ottocento folkloristica o borghese-romantica. In questo restyling di una produzione nata nel 2016, un fluire incessante d’attualizzazione, di voci sottotraccia di spose bambine, suicidi fra le sbarre e ogni altra forma di repressione, ecco tessersi uno spettacolo denuncia della condizione delle donne nella società siciliana del tempo (di tutti i tempi…), dove dignità e libertà erano calpestate in un ambiente familiare che imponeva ogni scelta di vita. Quanto mai attuale nel raccontare di un’epidemia e il conseguente ribaltamento della vita dell’epoca che ha creato, così come crea ai giorni nostri, un impatto sulle coscienze, risvegliandole a volte, ma spesso addormentandole ulteriormente. Rosy Bonfiglio s’immedesima profondamente nel personaggio: garrula all’inizio come una capinera lo può essere in cielo, canta, con voce modulata e fini smorzature, la solitudine della sua esistenza e del suo amore, stringendo una gabbietta piena di “appallottoli” (qual è la tua gabbia, su uno degli stessi che è consegnato all’ingresso) che celano sul fondo una rosa, rossa, estratta a tempo. Con quella voce duttile, dal timbro non penetrante ma che sa piegare a tutti i coloriti e le accentazioni, sviscera in ingente gamma i turbamenti dell’anima che travolgono la donna, con stupita semplicità ed estasi palesa il suo interno facendocene partecipi. Subentrano poi la stanchezza e le perplessità, il doloroso dubbio che il fascino del male possa possederla. Massimo punto lo raggiunge nella descrizione dell’incontro d’amore con Nino, di struggenza estrema: par di percepire l’intensità degli sguardi, gli arrossamenti del viso calano nella voce – che si fa tremula e partecipe spezzandosi in pianto – e il finale urlo verso il proprio corpo, non sufficientemente bello per lui. Arriva un percepibile sfinimento dell’animo. E pause, ricche di straziante pathos. Le cose del mondo lasciano, tutte, solo una grande amarezza. Non resta che il rifugio nella pazzia (la voce della Merini confessa la poesia trovata in manicomio, assente nella società). Da rilevare infine la capacità dell’attrice di credibilmente sdoppiarsi nella figura e timbro dell’algida matrigna. A un’estrema fascinazione della voce, Rosy Bonfiglio accoppia l’intensità dell’espressione corporea in coinvolgente partecipazione: partendo dalle libere e incontenibili esplosioni di vitalità iniziale, l’attrice si fa via via più castigata e interiore, iniziando da un sintomatico raccoglimento dei capelli, alla spoliazione dei miseri vestiti per restare solo in un povero body color della carne che un guardinfante, gabbia e sua prigione, non fa che rilevare. Capinera è un progetto di valenza etico culturale che si propone come riscoperta di uno dei più famosi romanzieri siciliani attraverso la forma teatrale e, al tempo stesso, riflessione sulle condizioni di continua repressione, cui molti individui sono ancora sottoposti. Successo calorosissimo per l’intensa prestazione di Rosy Bonfiglio. Al Teatro Gerolamo di Milano.

gF. Previtali Rosti

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