BERLINO, 13 FEBBRAIO – Un silenzio di tomba ha accolto la fine della proiezione del film inaugurale della 75ª edizione del Festival di Berlino, Das Licht (La luce), del regista tedesco Tom Tykwer. Un pasticcio nel quale si è impantanato questo cineasta sessantenne che, nei suoi anni d’oro (1998), riuscì a rivoluzionare il cinema tedesco con il memorabile Lola corre.
Tykwer, autore della sceneggiatura e anche della colonna sonora, ha deciso di affrontare tutti i temi e le problematiche contemporanee: dalla famiglia allargata all’omosessualità e la transessualità, fino alla cooperazione internazionale, alle complesse relazioni tra paesi ed economie sviluppate e sottosviluppate, e al paternalismo europeo. Senza dimenticare l’immigrazione clandestina e, ancor meno, la tragedia delle morti nel Mediterraneo. Peccato, però, che non approfondisca nessuno di questi argomenti.
Tutto ciò è racchiuso nel microcosmo di una famiglia iper-progressista: il padre è impiegato in una multinazionale impegnata a tagliare posti di lavoro, la madre da anni cerca finanziamenti statali per creare un teatro per minoranze in Kenya, mentre i due gemelli diciassettenni vivono le loro crisi personali: lei ha appena subito un aborto, lui è immerso nei videogiochi di realtà virtuale. A loro si aggiunge un figlio adulterino della madre, nato da una relazione con un uomo conosciuto a Nairobi.
In questo complesso quadro della società occidentale, ancora incapace di espiare le colpe della sua millenaria storia di sfruttamento e distruzione di altre civiltà, si inserisce una profuga siriana che ha perso tutta la sua famiglia nel tentativo di raggiungere l’Europa. La donna possiede un dispositivo luminoso intermittente – la “luce” che dà il titolo al film – che, almeno nelle intenzioni del regista, dovrebbe scavare nella profondità dello spirito umano.
E non solo: questa luce ha anche il potere di convincere tutte le anime in pena, morte senza colpa, ad abbandonare questo mondo in cui vagano inconsapevoli della propria condizione di spettri.
Se questo elenco di temi non bastasse a rendere l’idea del groviglio in cui si è infilato il regista, ci pensano i dialoghi pomposi e letterari che attori del calibro di Lars Eidinger e Nicolette Krebitz sono costretti a recitare, le improvvisazioni musicali e coreografiche alla Emilia Perez, la scarsa credibilità di personaggi e situazioni e, infine, le due ore e mezza di proiezione che hanno imprigionato gli spettatori di questo festival, inaugurato sotto i peggiori auspici a causa di un film autocompiaciuto e pretenzioso.