Nella prima giornata del 75º Festival Internazionale del Cinema di Berlino spicca un film cinese

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*Berlino, 13 febbraio** – Nella prima giornata del 75º Festival Internazionale del Cinema di Berlino, sono state presentate due pellicole con risultati disomogenei. Da un lato, spicca un apprezzabile film cinese che ritrae la dura vita rurale dei contadini nel 1991, prima del ‘grande balzo in avanti’. Dall’altro, una opaca opera prima di una sceneggiatrice inglese sulla conflittuale relazione tra una madre invalida e sua figlia, in un paesino costiero spagnolo.
‘Sheng xi chi di’ (Vivere la terra), secondo lungometraggio di Huo Meng, si distingue per la sua descrizione dello scontro tra la Cina arretrata e rurale, ancorata a tradizioni antiche, e la Cina che, nel decennio successivo, compirà passi da gigante verso la modernizzazione. In contrasto, ‘Hot Milk’ della debuttante Rebecca Lenkiewicz non riesce a superare un conflitto generazionale già visto numerose volte nel cinema.
Siamo nel 1991, quindici anni dopo la morte del ‘grande timoniere’ Mao Zedong, quando la Cina si trova alle soglie di grandi cambiamenti che ancora non influenzano la vita nei campi, dove le antiche tradizioni e consuetudini millenarie rimangono intatte e le famiglie si integrano in ampi gruppi che comprendono anche il secondo e terzo grado di parentela. In questo contesto cresce Cheung, di nove anni, probabile alter ego del regista, portato dai suoi genitori nella famiglia d’origine, dove convivono dalla quasi centenaria bisnonna a un neonato, abbracciando quattro e fino a cinque generazioni ferme nel tempo, con il loro immutabile alternarsi di stagioni, raccolti, matrimoni, nascite, funerali, riti e feste.
Meng, con l’aiuto di una formidabile fotografia di Daming Geo che mette in risalto il paesaggio rurale della regione natale del regista, si sofferma con affetto nostalgico sulle intricate relazioni familiari, in particolare con la zia, destinata contro la sua volontà a un matrimonio combinato, e sui riti funerari (come l’esumazione curiosa del cadavere di un patriarca, famoso ladro impiccato e fucilato, sepolto senza bara e nuovamente tumulato con la sua vedova alla morte di quest’ultima).
Questo film narra un’epoca di transizione, quando i giovani iniziano a emigrare verso le grandi città per migliorare il loro livello di vita, e vige ancora il divieto di avere più di due figli, che le contadine eludono con astuzie ingegnose, come farsi sostituire da parenti nubili. È un film toccante, pieno di umanità e nostalgia, una lezione di storia per le giovani generazioni cinesi che hanno dimenticato le loro radici.
Rebecca Lenkiewicz, autrice di una dozzina di titoli tra film, serie e telefilm, debutta nella regia a 57 anni con un film su una madre che cerca di guarire da una strana malattia che la condanna a una vita in sedia a rotelle, e sua figlia adolescente che sopporta sempre meno la dipendenza assoluta dalla madre. La donna, come ultima risorsa, si affida a un medico che crede che la soluzione sia nella mente del suo paziente e cerca di farle ricordare qualche episodio nascosto della sua vita che l’abbia portata a questo stato, mentre la figlia cerca confusamente quale sia la sua vera identità sessuale.
La veterana Fiona Shaw e la giovane Emma Mackey (che fu una splendida Barbie nel film omonimo e l’acclamata Emily Brontë in ‘Emily’) fanno del loro meglio per alzare il livello di questa anonima opera prima, che non ha neppure avuto la cortesia di mostrarci il finale, sospendendolo con i titoli di coda.
Antonio Maria Castaldo

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