BERLINO, 15 FEBBRAIO – Anche se fuori concorso, Mickey 17, il nuovo film del sudcoreano Bong Joon-ho, ha catalizzato l’attenzione del pubblico e della stampa mondiale al 75º Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Non solo perché arriva sei anni dopo il pluripremiato Parasite, ma anche per la curiosità suscitata dalla trama, ispirata a un romanzo futuristico dell’americano Edward Ashton, che racconta di un esperimento di reincarnazioni multiple durante un viaggio spaziale.
Frutto di una lavorazione complessa, non tanto per gli effetti speciali – relativamente modesti – quanto per una sceneggiatura estremamente intricata, il film presenta anche un gigantesco millepiedi intelligente e una nave spaziale comandata da una sorta di dittatore, un ibrido tra Donald Trump e Benito Mussolini. Inoltre, il montaggio non convinceva del tutto né il regista né i produttori, facendo lievitare un budget già elevato, oggi stimato tra i 120 e i 150 milioni di dollari.
Di conseguenza, film come il messicano Dreams di Michel Franco o il francese Ari di Léonor Serraille sono passati quasi inosservati, nonostante avessero alcuni spunti interessanti, seppur non del tutto sviluppati.
Interpretato da Robert Pattinson, nel doppio ruolo di Mickey 17 e 18, e affiancato da Mark Ruffalo e dall’australiana Toni Collette – ai quali Bong ha lasciato ampio spazio per la recitazione, a tratti eccessiva – il film racconta la storia di un viaggio intergalattico in cui alcuni volontari accettano di farsi uccidere e resuscitare per testare nuove vaccinazioni. Il tutto è finanziato da un miliardario e sua moglie, che nella solitudine dello spazio si considera una sorta di nuovo Dio.
Il titolo si riferisce alla 17ª reincarnazione di un volontario che, a causa di un errore, viene creduto morto e riportato in vita per la 18ª volta, portando entrambi a coesistere contemporaneamente. Questa trovata narrativa complica ulteriormente una storia già di per sé quasi incomprensibile.
Tuttavia, la maestria di Bong fa sì che lo spettatore si lasci trasportare dall’immaginazione del regista (e dello scrittore originale), riuscendo a seguire senza troppi problemi due ore e 19 minuti di spettacolo. Ma riuscire a recuperare un budget di 120-150 milioni di dollari (il che significherebbe triplicare l’incasso al botteghino) è tutto da vedere.
Nel suo nono lungometraggio in quindici anni di carriera e a 45 anni d’età, Michel Franco è diventato una delle voci più autorevoli del cinema messicano. Pur non avendo raggiunto la fama internazionale di connazionali come Guillermo del Toro, Alejandro González Iñárritu o Alfonso Cuarón, si è costruito un pubblico fedele e un network di produttori e direttori di festival che gli hanno permesso di accedere a finanziamenti importanti.
È il caso di Jessica Chastain che, dopo aver lavorato con lui due anni fa in Memory, è tornata a recitare nel suo nuovo film nel ruolo di un’ereditiera dell’alta società californiana. La protagonista si innamora di un ballerino messicano, ma non è disposta né a facilitargli la carriera negli Stati Uniti né tantomeno a riconoscere pubblicamente la loro relazione, che sarebbe mal vista nel suo ambiente sociale.
Sebbene l’aspetto più interessante del film sia la denuncia dei pregiudizi razziali e sociali che persistono anche in contesti apparentemente progressisti, Dreams punta più sulla storia d’amore che sulla critica sociale. E pensare che, se fosse stato concepito tre anni fa, avrebbe avuto ancora più rilevanza con l’arrivo di Donald Trump al potere e la sua politica di chiusura delle frontiere e deportazioni forzate.
Léonor Serraille, 39 anni, è una giovane sceneggiatrice e regista francese al suo terzo lungometraggio con Ari, la storia di un giovane che non sa cosa fare della sua vita e viene cacciato di casa dal padre dopo aver perso il lavoro di educatore per bambini il primo giorno stesso di impiego.
Vagando per la città, ritrova amici d’infanzia e adolescenza, tanto o più persi di lui. Tra litigi, discussioni, addii e riunioni, cerca di trovare un posto nel mondo, anche se la regista – autrice anche della sceneggiatura – lascia volutamente ambiguo se ciò accada nella realtà o solo nell’immaginazione del protagonista.
Estremamente verboso, come ogni film francese che si rispetti, Ari presenta un’interpretazione a tratti esagerata di Andranic Manet e un cast di attori poco conosciuti ma di grande carisma.
Antonio Maria Castaldo