BERLINO, 17 FEBBRAIO – Intelligenza, raffinatezza e originalità sono gli ingredienti con cui il tedesco Frédéric Hambalek ha saputo arricchire il suo splendido secondo lungometraggio, Was Marielle weiss (Quello che sa Marielle), ricevendo il più caloroso applauso sentito finora alla 75a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, meritato regalo per il suo 39o compleanno festeggiato proprio oggi.
Un applauso che non hanno conquistato nella quinta giornata né If I Had Legs I’d Kick You dell’americana Mary Bronstein né tantomeno Xiang fei de nv hai (Ragazze legate a un filo) della cinese Vivian Qu, due delle otto registe che insieme ad altre quattro esaminate finora non hanno dimostrato di possedere i requisiti necessari per aspirare a un premio importante in questa Berlinale.
L’idea originale del film tedesco è quella di immaginare cosa può succedere quando una bambina di nove anni è capace di sentire e vedere cosa fanno i suoi genitori quando sono lontani da lei, scoprendo così i loro segreti e bugie e creando un piccolo dramma familiare.
Ma la raffinatezza con cui il regista, autore anche della sceneggiatura, struttura la narrazione, l’eccellenza degli attori, Julia Jentsch e Felix Kramer, nei panni dei genitori tribolati, e soprattutto la debuttante Laeni Geiseler di cui la telecamera sa catturare anche il minimo dettaglio delle sue espressioni, unita al dramma degli ultimi quartetti di Beethoven che sfumano la giocosità delle situazioni, fanno di Quello che sa Marielle l’offerta più soddisfacente del concorso ufficiale insieme al brasiliano Ultimo
Azul e al cinese Living the land .
E ci fa scoprire in Hambalek un talento paragonabile in certa misura a quello di un Ernst Lubitsch o di un Woody Allen contemporaneo.
Mary Bronstein è una regista con una filmografia sporadica (appena tre lungometraggi in 17 anni di carriera) che durante i peggiori anni del Covid si è vista costretta a trasferirsi di città e rifugiarsi in un motel di infima categoria per prendersi cura della figlia che soffriva di una strana malattia.
In questo contesto restrittivo, di reclusione forzata e caos vitale, Bronstein ha ideato questa storia di una madre che sente crollare il mondo intorno a sé, con un marito che la abbandona, un terapeuta dichiaratamente ostile e pazienti che si ribellano (anche lei è terapeuta).
Non a caso, la protagonista vive o immagina di vivere situazioni inverosimili, come l’apertura di un buco nel soffitto della sua camera da letto, dove entra tanta acqua a dirotto quanto il fantasma di sua madre, mentre della figlia problematica della protagonista sentiamo la voce senza vederla fino all’ultimo istante della narrazione.
Il film è più che altro un omaggio alle qualità interpretative della protagonista, una veterana attrice australiana di 45 anni, Rose Byrne, che letteralmente divora il film con una presenza costante e quasi tutta in primi piani e con la sua doppia qualità aggiunta di coproduttrice e cosceneggiatrice, mettendo una forte ipoteca sull’Orso d’Argento per la migliore interpretazione femminile.
Vivian Qu è una delle rare registe di fiction cinesi, in quanto relegate per lo più a documentari e film educativi.
Questo è il suo terzo lungometraggio dopo un inizio professionale come produttrice, per cui è possibile che abbia utilizzato questa esperienza per ambientare nel mondo del cinema di kung-fu la sua storia di due cugine che si sostengono a vicenda in un contesto familiare instabile con nonno e padre tossicodipendenti e una madre costretta a finanziare la droga degli uomini con i magri guadagni che riceve dall’attività di famiglia.
Le ragazze legate a un filo del titolo si riferisce alla protagonista che lo utilizza per fare i suoi voli nell’aria, ma la storia melodrammatica e un’assurda riferimento alla criminalità cinese, aggiunti alla già obsoleta storia di perdizione, punizione e redenzione, privano il film di qualsiasi interesse.
Antonio M. Castaldo