Rivive l’incanto barocco del “Giulio Cesare”

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Parlare di Georg Friedrich Händel significa evocare una delle figure più grandi della storia della musica, onorato e venerato per la composizione dei grandi “Oratori” come Il Messiah e Israele in Egitto, più che per la sua produzione operistica. Händel trova, finalmente, ai giorni nostri la giusta attenzione come compositore teatrale, perché all’epoca in cui visse l’opera seria era il genere musicale per eccellenza. Coprodotto con il Teatro Alighieri di Ravenna, Comunale di Modena, Teatri di Piacenza, Giglio di Lucca e Fondazione Haydn di Trento e Bolzano, il Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia ha messo in scena un nuovo allestimento di Giulio Cesare, la più popolare delle trentacinque opere del compositore sassone naturalizzato inglese, di gran lunga la più sontuosa nella varietà stilistica e ricchezza melodica, che racconta del coinvolgimento amoroso tra l’Imperatore e la bella Cleopatra, poi proclamarla regina d’Egitto. La storia, basata su fatti storici, è un racconto d’intrighi politici e dell’uso dello charme femminile per conquistare il potere: un plot sempiterno, che potrebbe essere cronaca d’oggi, come accadde 2000 anni fa. L’azione si svolge durante la visita di Giulio Cesare in Egitto nel 48-47 prima della nostra era; molti dei personaggi sono storici, ma i particolari della vicenda sono largamente inventati e Giulio Cesare, nel melodramma, sembra essere molto più giovane della sua controparte storica, che aveva cinquantaquattro anni quando incontrò Cleopatra. Händel scrisse l’opera per il londinese Teatro di Haymarket, dove debuttò il 20 febbraio 1724, riprendendola per ben tre volte, nel 1725, 1730 e 1732, a testimonianza del favore incontrato presso il pubblico. Nel 1922 ci fu la prima ripresa in epoca moderna, data con criteri per noi oggi assolutamente inconcepibili: affidare a voci maschili i ruoli scritti in origine per i mitici castrati, per essere poi sostenuti da mezzosoprani o contralti, o negli ultimi tempi, da controtenori, come in quest’edizione. Due i personaggi principali dell’opera: Cleopatra e Giulio Cesare. Il carattere della regina d’Egitto (che ha affascinato cantanti del calibro di Lisa Della Casa, Joan Sutherland, Beverly Sills e Montserrat Caballè) dipinto in tutte le sue infinite varietà di colori, è reso con stupefacente intuito: quasi burlona nel primo atto, mutando dalla seduzione alla disperazione nel secondo e ritornando a trionfare nel terzo. Le sue due arie d’afflizione, “Se pietà “ e “Piangerò la sorte mia”, sono tra le più raffinate che Händel abbia composto, mentre “V’adoro, pupille”, con le sue incantevoli sonorità strumentali, è sicuramente un insuperato esempio di canto di seduzione. Il ruolo di Cesare include alcuni recitativi accompagnati d’estrema bellezza (notevole il commovente “Alma del gran Pompeo”), e la rimarchevole aria con corno solista “Va tacito”. Il personaggio “viperino” di Tolomeo, è ben descritto dalle sue tre arie, mentre Cornelia e Sesto sembra abbiano molta più musica di quella che richiederebbe la loro posizione all’interno dell’opera – probabile conseguenza della necessità da parte del compositore di rispecchiare l’importanza dei cantanti che parteciparono alla prima rappresentazione. Oggi, va notato, si è all’esasperato utilizzo delle voci controtenorili, un surrogato, per le parti che il compositore previde per castrati.  La parte di Sesto, scritta in origine in tessitura sopranile (a sfruttare il timbro chiaro femminile, per caratterizzare un personaggio non ancora nella piena maturità) è affidata a un controtenore: per trastullarsi con la verità drammatica va all’aria la tavolozza timbrica händeliana, generando un senso di assuefazione a un timbro innaturale, di limitato volume e ampiezza di fraseggio, non certo aulico. Non si prova senso di meraviglia all’ascolto, né stupore né edonismo, risultando l’opera una pura carrellata di arie. La compagnia di canto (che annoverava ben tre controtenori) ha fatto quel che di meglio poteva fare, mostrando l’assoluta spettacolarità della partitura, scritta per cantanti fuoriclasse. Il controtenore Raffaele Pe ha reso onore all’impegnativo ruolo eponimo di Giulio Cesare non riuscendo sempre a dominarlo completamente, specialmente là dove la voce, impoveritasi nel registro centrale, richiederebbe ben altra consistenza. Sa far valere la lunga esperienza di palcoscenico e strappa ammirazione in quelle arie che richiedono vorticose agilità. La Cleopatra troppo soubrette di Marie Lys ha vocalmente svolto professionalmente il compito, senza essere del tutto irreprensibile vocalmente: manca lo scintillio e quell’orgiastico gusto e spettacolare uso della coloratura richiesti in certe arie. Ha privilegiato e messo interpretativamente in mostra solo un aspetto della poliedrica personalità, forgiandone un personaggio a senso unico. Tolomeo pungente e pregevole vocalmente di Filippo Mineccia, voce di controtenore ricca e proiettata; non particolarmente aulico nel fraseggio ma di buona vocalizzazione, non impensierito dalla coloratura nelle impegnative arie. Esagitato e sopra le righe per esigenze registiche. Cornelia era Delphine Galou che, pur afflitta da fissità di suoni e senza avere una voce dal timbro particolarmente brunito, ha saputo esprimere con partecipazione la dolente condizione di una donna privata dell’amore e del sostegno del marito. Pregnante Sesto Pompeo dal timbro chiarissimo di Federico Fiorio, altalenante tra giovanili furori e teneri doveri filiali. Davide Giangregorio, dal bel timbro di basso, era un efficace anche se a volte stentoreo, Achilla; ottimo Curio di Clemente Antonio Daliotti mentre Andrea Gavagnin era un lezioso Nireno. Il direttore d’orchestra Ottavio Dantone, specialista del repertorio (che ha offerto in passato trascinante interpretazione di questa partitura) non riesce completamente convincente nel render conto della sontuosa ricchezza e varietà della tavolozza musicale approntata da Händel, eseguendo la partitura senza una pulsante e vitale partecipazione. Anche le variazioni apportate ai daccapo, sobrie ma prive di fantasie, a volte finiscono per snaturare il senso espressivo dell’aria. Chiara Muti crea uno spettacolo smaccatamene ironico (scene di Alessandro Camera, costumi non sempre originali di Tommaso Lagattolla), farcito da continui rimandi e citazioni le più eterogenee, dalle tre Parche al Sogno di una notte di mezza estate, sconfinando a volte nell’opera buffa, a creare un pot-pourri che, se da una parte compiace il pubblico, non rende perfetta idea dello spirito barocco, tradendone il clima favoloso e astratto. Sfilano mimi esageratamente presenti, in stilizzate battaglie epiche sottolineate da rumori e cachinni fastidiosi: quasi tutti i cantanti hanno assecondato, divertendosi, la regista in una recitazione esasperata nel gesto e negli sguardi. Pubblico del Teatro Romolo Valli partecipe e attento: alla fine, entusiasta e divertito, ha applaudito con calore l’intera compagnia di canto e il Direttore. Al Teatro Municipale di Reggio Emilia.

gianFranco Previtali Rosti

phZaniCasadio

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