Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può essere da tutti immaginato in tante altre situazioni in cui l’autore non pensò mai di metterlo, e acquistare anche a volte, un significato che l’autore non sognò mai di dargli!
A scrivere per il teatro Luigi Pirandello arriva relativamente tardi e questo fatto basta a spiegare perché due terzi dei drammi scritti per la scena siano stati tratti da precedenti opere narrative. Scritti in cui l’unità psicologica del personaggio, così come si concepiva allora, in una società dal forte retaggio ottocentesco, è definitivamente dissolta per lasciare spazio a una verità soggettiva, sempre mutevole, mai definita e inafferrabile. Dal 1915 il drammaturgo siciliano, con un ritmo incalzante e frenetico, ripropone sul palcoscenico i temi che aveva già enucleato nei suoi romanzi e numerose novelle, ossia quell’impossibilità di conoscere una verità in se stessa, la vanità del vivere di ognuno a confronto della finzione – considerata la sola realtà – ma considerando l’instabilità anche di quest’assunto, per l’instabilità di tale finzione nel passare del momento stesso in cui la si è considerata. Dopo molti testi per il teatro Pirandello, proponendo Sei personaggi in cerca d’autore in Italia e in Europa, si vedrà finalmente considerato come l’autore nuovo che si attendeva. Con i successivi Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto lo scrittore darà un ideale seguito, formando insieme la “trilogia del teatro nel teatro”. Tra le altre cose Pirandello fu uno dei sostenitori in Italia di una riforma della messinscena, fondando e dirigendo a Roma quel “Teatro d’arte” mezzo per far conoscere nuovi autori e allestire spettacoli capaci di far tesoro delle conquiste acquisite dalla moderna regia. Nel 1934 il suo valore assoluto sarà riconosciuto con l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura. Sul palcoscenico di un teatro, una compagnia di attori vive una vita di routine e monotona (pur scossa da fremiti e desideri d’innovazione, capace d’insubordinazioni ai dettami del capocomico) provando, in maniera insofferente, una commedia che non ha un sapore nuovo…Si tratta di spasmi e sussulti di un gruppo di attori stanchi di subire una teatralità “morta”, dettata da autori “morti” che non hanno più niente da dire, filiazione di una società finita, mentre loro anelano a novità che sappiano venir dall’avvenire. Eppure, sembra che il nuovo non lo sappiano assimilare senza fatica e senza sofferenza. A turbare questo stanco ritmo di lavoro ordinario e monotono irrompono improvvisamente in scena quattro personaggi, quattro figure (i due bimbi saranno reclutati nella troupe dei comici) tra reali e irreali, dotati, questo sì, di una carica che eleva immediatamente il tono della rappresentazione. Sono creature “vive e senza vita”coscienti di esistere ma senza diritto alla vita. Al Capocomico, alla Compagnia di attori (forti di un copione) chiedono di essere accettati, non foss’anche per un momento per poter “vivere”; ma la fatica di far accettare il loro dramma, la loro viva passione, si scontra con l’incomprensione di tutti. Il regista Valerio Binasco, dopo Il piacere dell’onestà ripropone un Pirandello mettendo in scena l’eterno stato di conflitto pirandelliano fra ciò che è realtà e ciò che è finzione nonché, e si sente che gli sta a cuore, il senso di fare teatro oggi. Nella compagnia di attori adombra la società attuale, stanca sì di cliché corrivi e ovvi ma ben legata al copione, mal comprendendo che questi personaggi, sono portatori di una coscienza profetica che deve ancora formarsi, quella creatrice dei precursori. Possono essere l’avvenire tanto atteso, ma non sono accettati e tanto meno ammessi, da questa “società” che ha il copione, le carte in regola. L’incomprensione fa lentamente spazio alle emozioni sentimentali e il capocomico e gli altri concedono loro per “prova” di poter esprimere dramma che li brucia, ma volendo creare un copione – di cui poi impadronirsene – cedendo la scena ai doppi della compagnia. Ma sono sempre i personaggi, avendo rotto l’incantesimo del loro “non essere” a dominare il palcoscenico per trovare una liberazione nella tragica fine dei due bambini. Solo il figlio che non sa appagarsi di quell’esistenza cui gli altri aspirano attende, chiuso nel suo incomunicabile dramma che lo porta a spararsi un colpo di pistola, di trovare una via di liberazione. Il mondo piccolo borghese e il nucleo famigliare, già abbondantemente decostruiti da Pirandello, trovano in Binasco nuovi accenti di frammentazione, da cui nascono i toni esasperati della partecipe quanto esagitata Figliastra di Giordana Faggiano, capace di diventar suadente alla bisogna, e il devastante scontroso mutismo del Figlio dell’intenso e piagato Giovanni Drago. Valerio Binasco si riserva toni quasi suadenti e convincenti di marcata perorazione, poggiati su una recitazione variata nelle sfumature, di una ricchezza emotiva che si arricchisce delle efficaci espressioni del volto. Sara Bertelà imprime alla Madre un’espressività remissiva, quasi acquiescente alla volontà degli altri, opponendo a questa resistenza che la lacera, scatti e sussulti di orgogliosa affermazione. Juri Ferrini è un brontolante ma stupito Capocomico pervaso d’ironia. Accettabile il resto degli attori. Spettacolo non sempre della stessa intensità, ma che offre momenti di pura magia e accattivante tensione. Scene di Guido Fiorato, piacevoli i costumi di Alessio Rosati per i “personaggi” a risaltare sull’anonimato e moderno vestiario della Compagnia; buone le luci di Alessandro Verazzi. Calorosa accoglienza da parte di un pubblico tendenzialmente giovanile che gremiva la sala Strehler del Piccolo Teatro di Milano. In scena fino al 9 marzo.
gF. Previtali Rosti