La vita non è un romanzo: Evgenij Onegin

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E’ una delle frasi pronunciate da Lenskij nell’Evgenij Onegin di Piotr Iliic Ciaikovskij, partitura completata nel 1878 e tratta dal romanzo in versi di uno dei poeti più riveriti in patria: Alexandr Puškin. A differenza della frase citata, il libretto di Onegin riflette dettagli significativi delle vite dei due grandi artisti russi. Ambientato nella campagna nei dintorni di San Pietroburgo verso il 1820, la storia racconta di un giovane e annoiato aristocratico, Onegin, presentato dall’amico poeta Lenski alla giovane Tat’jana: la giovane, travolta dall’amore, si vede rifiutata. Sarà poi lei, divenuta sposa del principe Gremin, a dover congedare Onegin, scopertosi tardivamente innamorato della donna. Tat’jana è il personaggio che cambia e matura, e alcuni musicologi, analizzando questo lavoro di Ciaikovskij, disputano con buona logica che questa sia la sua storia e non quella di Onegin.

Opera in tre atti di Piotr Ilic Ciaikovskij, libretto scritto a due mani dal compositore stesso e Konstantin S. Silovskij tratto da Puškin che concepì questo poema come vagamente autobiografico – durante un periodo di grande fervore spirituale e creatività artistica – affascinato dall’esempio byroniano, si affranca via via da ogni influenza esterna. Grande novità fu di inserire, lungo il poema, elementi di lingua popolare, che assurse a forma d’arte. I personaggi protagonisti sono profondamente e caratteristicamente russi, e questo dà l’idea dell’importanza che ebbe questo “romanzo in versi”, più che per la trama del racconto, che non spicca per originalità per quei tempi. Evgenij Onegin, terminato nel 1878, fu rappresentato per la prima volta il 28 marzo (o il 18, se si considera il calendario ortodosso) 1879, dagli studenti del Conservatorio di Mosca: nessuna opera fu mai preparata prima con tanto zelo. Il compositore, assente da Mosca, tornò in tempo solo per l’ultima prova al Teatro del Conservatorio, con la sala immersa nell’oscurità, fatte salve alcune candele sull’orchestra. Arrivato il momento della “scena della lettera”, Ciaikovskij ne fu molto commosso: fortunatamente è buio, così nessuno può vedere il mio pianto…sembra abbia esclamato. Ci fu un afflusso senza precedenti allo spettacolo, ma la musica era di un genere troppo alto perché fosse apprezzata a un primo ascolto; anche i critici musicali di San Pietroburgo riservarono un’accoglienza abbastanza fredda al nuovo lavoro, e l’opera non tornerà in quella città che cinque anni più tardi. Lo stesso compositore, in una lettera all’amico Taneyev scrisse: “Onegin non sarà mai un successo…non ha futuro”. La storia l’ha fortunatamente smentito, visto che con il passare del tempo accrebbe in notorietà: quando fu pubblicata la partitura per pianoforte, le vendite furono altissime. Onegin è l’opera di Ciaikovskij più rappresentata, almeno in Unione Sovietica, dove vanta una popolarità immensa. Facilmente comprensibile per una partitura contiene esempi notevoli d’ispirazione musicale e abilità di scrittura del musicista russo, nonostante le circostanze in cui si trovò a comporre fossero ben lontane dall’essere ideali. Partitura “emblema” dello spirito ciaikovskiano, permeata di malinconia, sensibilità portata all’esasperazione con punte di decadentismo e intrisa di una fatalità che rasenta il pessimismo. La lettura del romanzo di Puškin fece nascere un grande entusiasmo nel compositore, che intuì subito l’affinità tra il soggetto elegiaco e il suo modo di scrivere, ispirandolo a comporre musica in uno stile più genuinamente russo di quello che non aveva fatto nelle opere precedenti. Musicalmente Onegin è una partitura unitaria, trasportandoci da una scena all’altra senza stacchi avvertibili, pur essendo costruita sul solito armamentario di pezzi chiusi: arie, duetti, quartetti, etc. Nel suo svolgersi alcuni motivi musicali tornano a essere ripresentati all’ascoltatore: non in maniera evidente e plateale, ma ricorrendo all’allusione. Ecco allora “temi” ascoltati durante la celebre scena della lettera, riaffiorare quando un sentimento affine si ripresenta, oppure un’analoga situazione torna a svelarsi. La prima italiana fu diretta alla Scala nel 1900 da Toscanini, protagonista Emma Carelli, cui seguirono poche altre edizioni sul palcoscenico del Piermarini: nel 1954 Rodzinski diresse Renata Tebaldi (sempre in versione italiana) e, per la prima edizione in lingua russa, si dovette aspettare la tournèe del Bol’soj nel 1973. Dopo l’edizione del 1986, in cui si ricordano il direttore Ozawa e una pregevole Mirella Freni nei panni di Tatjana, Evgenij Onegin fece l’ultima comparsa a Milano nel 2006, con il pregnante allestimento di Graham Vick, tornando nel cartellone di questa stagione in una nuova produzione, regia di Mario Martone. Al direttore Timur Zangiev, tra i più interessanti della sua generazione, il compito di dirigere l’Orchestra e il Coro nella sua seconda apparizione sul podio scaligero. Alfiere del repertorio russo, mostra di credere in Onegin, ma l’universo musicale di questa partitura (a differenza di Pique Dame in cui aveva entusiasmato) non sembra adattarglisi perfettamente. Travolgente nei veementi e turgidi momenti drammatici della partitura, lo era meno nella cura e nell’originalità del fraseggio e nell’approfondimento interpretativo della partitura, carente d’intima poesia; danze povere di finezza e vero brillio. Nella compagnia di canto spiccava Lenskij di Dmitry Korchak, innamorato poetico e malinconicamente passionale, fermo nei suoi propositi. Vocalmente sicuro, dotato di uno strumento vocale che squilla e “corre” per la sala, slancia la voce non risparmiando energie per giungere a un’intensa partecipazione, capace di evocare il “profumo” e l’atmosfera del mondo russo. Sagace e raffinato nell’uso di sospese mezze voci -sostenute ed espressive – riveste l’aria ‘Kuda, kuda, vi udalilis’ con accenti di struggente malinconia. Tat’jana di Aida Garifullina, dal pregevole phisique du rôle ha voce di timbro non particolarmente rimarchevole e ampio, pur penetrante.  Efficace nel delineare un’innamorata travolta dai colpi della passione amorosa, mette fuoco ma di fondo non commuove. Sposa meglio la trasformazione del personaggio, nella sofisticata e consapevole donna del terzo atto, sgelandosi vocalmente all’abbraccio di Onegin e trovando accenti di maggior adesione nella risoluta e ferma decisione finale. Il baritono Alexey Markov dalla bella linea di canto, delineava un Onegin credibile (ad onta di uno stile a volte altisonante ma efficace) nel subito mostrare i gelidi tratti di cinismo di cui è plasmato, nell’energica e franca confessione della volontà di non amare. Capace di sfumature vocali, rende la dolorosa amarezza riguardando “en arrière” la sua vita. Elmina Hasan era Olga sprizzante vitalità ma vanesia e superficiale, partecipe Larina di Alisa Kolosova di profonda voce, tenera “balia” Filipp’evna di Julia Gertseva, dai suoni spesso intubati e ondeggianti, ma intensa interprete nel racconto del suo passato amoroso. Completava il cast, il Principe Gremin di Dmitry Ulyanov voce non particolarmente nobile, capace di note profonde, rende palpabile l’umanità del suo amore. Da citare infine il linfatico Triquet di Yaroslav Abaimov, dal raffinato canto. Il regista Mario Martone alleggerisce la vicenda degli usuali riferimenti e caratteristica ambientazione in cui s’incornicia l’opera. Non concede nulla, se non una stentata processione nel nulla della steppa anonima – allo stereotipato cliché del folclorismo russo, che in alcune scene, vedi quella della “lettera”, in una stanzetta-cubo carica di simbologia forzata e ingenua, rasentano un minimalismo punitivo che stenta a raggiungere il cuore e trascinare. La regia prende il volo nell’ultima parte del terz’atto, in una potente visione intimista, di nero su nero, quasi da sogno rivissuto, delle due anime di Onegin e Tat’jana ormai diversamente innamorate. Idee credibili si sono viste al momento del duello e, in generale nei quadri d’insieme, con il Coro scaligero impegnato al suo meglio. Le scene di ballo, poveramente diversificate e funzionali ai fini della narrazione, mostravano uno spaccato di umanità sanguigna, ma quasi burattinesca e in disarticolata agitazione. Allestimento ambientato in un desolante paesaggio sotto cieli in movimento, in tempi e abiti recenti. Scene di Margherita Palli e costumi di Ursula Patzak, da ricordare unicamente per l’elegantissimo “monospalla” finale; luci di Pasquale Mari e dubbia coreografia di Daniela Schiavone. Cordiale accoglienza. Al Teatro alla Scala, recite fino all’11 marzo.

gF. Previtali Rosti

ph Brescia e Amisano

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