Nel 1970, in occasione dell’uscita di un film di successo come Festa per il compleanno del caro amico Harold, si diffuse la speranza che la questione del “coming out” omosessuale si potesse finalmente e definitivamente considerare risolta; e che la scelta sessuale fosse ormai da derubricare come un fatto privato attinente alla sfera della libertà individuale. Una decina di anni dopo ecco la doccia fredda, ovvero The big chill, il magistrale film di Kasdan sulla caduta degli ideali libertari del Sessantotto, erosi dall’imborghesimento e dalle convenzioni di una società conservatrice e retrograda.
Di quegli anni Settanta ferocemente e appassionatamente ribelli sono stato testimone e in qualche caso soggetto attivo, sempre attento e partecipe alle questioni del movimento studentesco e del movimento di liberazione delle donne e per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali, non solo in sede civile, ma anche sulla base della dignità personale. Ricordo la mia frequentazione e vicinanza, a tutt’oggi protratta, col gruppo femminista del teatro della Maddalena a Roma fondato da Dacia Maraini, Maricla Boggio e Edit Bruck. Maricla Boggio tra l’altro autrice di un testo teatrale Mara, Maria, Marianna e di un lungometraggio Marisa della Magliana che si iscrive nel contesto delle lotte femminili e della denuncia dei soprusi e angherie sofferti dalle donne. Testi che ho avuto il piacere di curare e diffondere come editore.
Due casi umani di quel periodo caduti ahimé nel dimenticatoio, anche mio, obliati, vengono oggi opportunamente richiamati all’attenzione. La prima vicenda è relativa al tragico caso Braibanti, il professore universitario perseguitato ed escluso dalla società per la sua relazione d’amore sincero e intenso con un allievo, attualmente portato in teatro da Giuseppe Marini. L’altro drammatico caso è la storia di Mariasilvia Spolato, prima donna in Italia a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità e a patire conseguenze disastrose per la sua esistenza da parte della società italiana bigotta e reazionaria.
La storia vera della Spolato ha ora ispirato il film di Geraldine Ottier IO NON SONO NESSUNO uscito in questi giorni nelle sale, direi tempestivamente in concomitanza col 50° anniversario dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Una ricorrenza significativa in questo caso poiché il lungometraggio della Ottier riguarda comunque le violenze e persecuzioni subite dagli omosessuali a 360 gradi. Si tratta dunque di un film importante, impegnato, delicato per la forma e ruvido nei contenuti, documentato ma non documentario. Infatti la “storia vera” della Spolato, rappresentata dalla Ottier sulla base della sua intensa sceneggiatura e con una regia di forte impegno civile e drammaturgicamente efficace, intreccia documento e passione in una robusta trama narrativa, mediante la quale trasporta e trascina lo spettatore nel vortice verso il fondo di una coraggiosa personalità femminile che chiede, umanità, comprensione, accettazione della propria scelta rivendicando al contempo la parità dei generi: la dignità e l’autonomia della donna sia etero che lesbica, senza però ottenere altro che disprezzo, vergogna e peggio ancora gravi conseguenze professionali, tali da rovinarne l’esistenza.
La Ottier ha il merito di restare sempre sul pezzo, così suol dirsi in gergo tecnico, come piacerebbe a Zavattini di Umberto D. in cui sul protagonista viene concentrata l’attenzione dello spettatore in una sorta di piano sequenza investigativo. Sinceramente ci sentiamo e siamo tutti “sotto botta”, sotto accusa in questo processo alla storia, nessuno escluso. E non solo la parte maschile della società, ma anche quel milieu femminista che per ipocrisia o quieto vivere si tira indietro dalla lotta “dura e senza paura”; e finisce per rinnegare le proprie scelte per rientrare più o meno forzatamente nei ranghi borghesi. Come l’amante e amica Valeria che per “una vita normale” taglia bruscamente corto con la sua relazione omosessuale e si fidanza con un fusto maschilista; o la stessa madre di Mariasilvia che ripudia la figlia per quieto vivere sociale. Quindi non si salva nessuno nel lungometraggio della Ottier, alla sua opera prima dopo una serie di importanti riscontri nell’ambito di “corti” e documentari: neppure le compagne di lotta di Mariasilvia vittime delle contraddizioni di un massimalismo rivoluzionario che, come la cronaca ha dimostrato, finisce per esaurirsi in un fuoco di paglia, nel perbenismo borghese e nella ricerca della “normalità”.
Sembra intendere questo il finale del film dove la derelitta “barbona” Mariasilvia viene tratta in salvo da due figure maschili sensibili e umane, quasi in un capovolgimento relazionale, ovvero il libraio che sostiene spiritualmente la poveretta e il direttore della casa di cura per anziani che la accoglie con rispetto e le garantisce un dignitoso sipario.
Del resto la discesa verso il fondo, il processo di autoannullamento di Mariasilvia Spolato (interpretata da una intensa Elena Zambelli) che da brillante matematica e docente finisce per vagare da homeless sotto i ponti in completo abbandono e solitudine, è narrato dalla Ottier, ripeto, con dura dolcezza, per usare un pleonasmo, capace di far scattare la catarsi e la commozione. Dico “dura dolcezza” perché la Ottier opportunamente evita edulcorazioni come nel troppo celebrato film della Cortellessa che, tanto per fare un paragone appropriato in chiave tematica, adotta un escamotage di regia avvalendosi di balletti che smussano e ammordiscono ogni tratto spigoloso della cosiddetta “questione femminile”, dell’emancipazione della donna.
IO NON SONO NESSUNO dunque è più che il racconto di una storia dai tragici risvolti, bensì è un vero e proprio processo alla storia, alla società non solo dell’epoca dei fatti, ma del nostro attuale periodo che sembra di ritorno a tempi di oscurantismo. Anche con le donne, le cosiddette “lady di ferro” al potere che riproducono al femminile i canoni (e cannoni) della società maschilista, prevaricatrice e – dulcis in fundo – guerrafondaia.
Enrico Bernard

