Disperato è il Viaggio verso la notte

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Lungo viaggio verso la notte, è considerato il più alto risultato narrativo di Eugene O’Neill, scritto nel 1941 ma pubblicato postumo nel 1956, stesso anno in cui la pièce sarà rappresentata per la prima volta in Svezia. E ancora postumo sarà il riconoscimento per il drammaturgo americano, cui sarà assegnato il Tony Award come miglior lavoro teatrale, dopo il debutto a Broadway. Quando Long Day’s Journey into Night fu pubblicato, in molti si persuasero che fosse un dramma autobiografico, per la forte sovrapposizione della tragica narrazione con i ben noti accadimenti della vita dello scrittore. Il realismo con cui erano presentati gli svolgimenti, era sufficientemente convincente per avvalorare la tesi: ma non tutto era verità, perché anche quando si narrava il vero, lo si faceva dal punto di vista del protagonista, che alterava fatti ignorandone altri. Ad esempio il primo matrimonio di O’Neill si era già risolto in un divorzio, al momento dell’azione del dramma. Grazie alla perfetta credibilità artistica, questo lavoro estrinseca la relazione fra biografia e finzione scenica: sviluppando e trasformando vicende vissute, il lavorio creativo e fantasioso del drammaturgo, le sublima in un’opera d’arte. Le due personalità di James e Mary Tyrone adombrano facilmente i genitori di O’Neill, e il protagonista, al pari del vero padre dello scrittore, è abbandonato in tenera età assieme alla madre e ai fratelli. Dovendo sperimentare presto una dura forma di lavoro, viene dalle circostanze facilmente forgiato alla consapevolezza del valore del denaro. Troppa, esagerata, portandolo a una spregevole forma di taccagneria e, quel che è peggio, a sottomettere ogni azione o decisione in funzione di quello, posponendo ragioni di umanità al denaro. Importante, nel dramma, il rilievo che assume il teatro: James (come O’Neill), attore shakespeariano promettente, si lascia sedurre dalla musa di un melodramma romantico che gli vale grande riscontro al botteghino (proprio quel che fece O’Neill con il ruolo protagonistico nel Count of Monte Cristo di Dumas) lasciandosi travolgere dal successo commerciale, accumulando soldi su soldi dopo ogni stagione, per rinunciare a ben più alte parti artistiche, finendo per scadere nella sua stessa stima. Ad aggravare il dramma si aggiungono sia l’aver fatto ricorso a un medico di scarsa professionalità che somministrò morfina alla moglie, in occasione del parto del figlio più giovane, avviandola così alla dipendenza da droga, sia l’incapacità di costruire per se e per la famiglia un vero ambiente di casa, in cui gli affetti potessero espandersi e crescere. Fatti questi che non sembrano corrispondere alla realtà del vissuto di O’Neill. Resta da concludere che il dramma, è sì autobiografico, ma descrive una verità psicologica relativa, cioè come la percepiva il drammaturgo. La prima messinscena italiana si ebbe nel 1957, al Teatro Valle di Roma, grazie alla coppia Eva Magni – Renzo Ricci (sua anche la regia) nelle parti protagonistiche. Ricci, nel ruolo di James Tyrone si aggiudicò il premio San Genesio come miglior attore. E’ la volta ora di Gabriele Lavia riproporre Lungo viaggio verso la notte, nella veste di regista e interprete principale. L’attore nato a Milano, fa il suo ingresso con il suo carismatico stare in scena, ammantando di una patina di bonomia, e quasi di rispettabilità, il ruolo di James Tyrone camuffandosi camaleonticamente fra le pieghe di una spaventosa avarizia, quasi comica, se non fosse foriera di drammatiche conseguenze. E’ feroce nel conflittuale rapporto con i figli, in un serrato gioco al massacro sottile e continuo, di tutti contro tutti, che sembra non aver mai fine. Suadente e tenero con la moglie, nasconde – anche a se stesso – la vera natura di cui è impastata la miseria umana: tenero e violento, sprezzante e amoroso, partecipe e individualista egocentrico. Sempre sapientemente denso e gravido nel fraseggio, riesce toccante nella rappresentazione della decadenza senile, eppur mai domo, in un impegno fisico che lo vede salire e scendere, (agile ultraottantenne) su e giù dal tavolo per accender lampadine al risparmio. Riflessioni ad alta voce di ricchezza di colori vocali, in una recitazione a specchi, che si riflette in illusione reciproca. E le mani, dotate di espressività propria. Federica Di Martino è la moglie Mary, leggera e vaporosa, a volte poco consistente nell’evanescente drammaticità, in assoli che la fan sembrare un’ombra di un altro mondo, quasi parlasse a se stessa, è un misto di bontà masochistica che non dimentica e sa perdonare, unita a scatti idi inaspettato furore. Vogliamo essere noi stessi, ma la nostra vera essenza esce lo stesso: serpeggiano costantemente il disagio e il drammatico senso di non appartenenza. Pregnante Jacopo Venturiero nei panni di Jamie, il fratello maggiore, che non risparmia energie nella recitazione, sanguigno e lucido nella visione di una vita fallita in ogni aspetto.  Eppur capace di riscatto umano, dopo aver descritto le contraddizioni che regolano il rapporto con il fratello minore, di stringerlo in una tenerezza di abbraccio e mostrare l’affetto di cui è capace, così come in precedenza, con la prostituta “voluminosa”. Anche Ian Gualdani sposa facilmente il personaggio del minore Edmund, inizialmente non particolarmente sviscerato, si fa via via più credibile per giungere al drammatico scontro finale col fratello. Beatrice Ceccherini presta a Cathleen, la giovane cameriera, una fresca presenza all’unico personaggio che sembra dotato di vita vera, nonché di bella voce canterina. Regia di Gabriele Lavia che si dispiega efficacemente nell’insistita claustrofobia di sbarre e in calcolati movimenti dettati da una palpabile solitudine interiore. Cura del particolare nel fascinoso impianto fisso di Alessandro Camera, con la nascosta scala che s’inerpica fra immense e altissime librerie, ricche di un sapere che nessuno fruisce mai. Costumi piacevoli di Andrea Viotti e raffinate selezionate musiche di Andrea Nicolini. Una produzione Effimera, Teatro della Toscana. Accoglienza calorosa. Al Piccolo Teatro Strehler di Milano, fino al 30 marzo.

gF. Previtali Rosti

Foto Tommaso Le Pera

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