“Sarabanda”, di drammatiche passioni

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Dopo la prima nazionale del 7 gennaio al Teatro Mercadante di Napoli, arriva a Brescia nella ricca stagione del CTB, Centro Teatrale bresciano, il fascinoso Sarabanda. Ultima opera di Ingmar Bergman, è quasi un lascito, un testamento quello offertoci dal regista svedese che si sposa significativamente con il teatro e le differenti esigenze del palcoscenico. Partendo dal famoso Scene da un matrimonio ritroviamo in scena, maturati male, illividiti e incancreniti dal rimuginio e dal passare del tempo, i protagonisti di allora. Il regista svedese girò Sarabanda nel 2003, con interpreti cult dei suoi film del calibro di Liv Ullmann ed Erland Josephson. Il film è strutturato in una sequela di un prologo e dieci scene in cui, a rotazione, due dei quattro personaggi si alternano in una lacerante conversation piece, su un sottofondo musicale, che sottintende all’andamento della sarabanda del titolo. Una danza, questa, dall’andamento gravemente maestoso e al tempo stesso insinuante e sensuale, tanto da esser proibita in alcuni paesi nel secolo XVI ma adottata in seguito da compositori come Bach, nello splendore compositivo del periodo barocco. Opera ultima e per questo estrema, affronta in maniera disincantata quesiti basilari che assillavano il regista: la morte, la solitudine dell’essere umano, l’inferno della famiglia e l’arte, quale strumento di salvezza. Temi ben presenti nei drammaturghi nordici che hanno alimentato le letture di Bergman. Ibsen e Strindberg in primis. Ma qui le tematiche bergmaniane si sono fatte qui ancor più distillate e urticanti, sulla solitudine infinita di queste anime, cui si è aggiunta quella della nipote Karin. Un guardarsi en arrière, non casuale, se si pensa all’importanza che assumono i nomi scelti per i protagonisti di questa pièce: Anne e Johan erano i nonni materni del regista, Karin la madre mentre il padre si chiamava Erik, quel pastore luterano di proverbiale severità, che marchierà a fuoco l’educazione di Bergman inculcandogli un lacerante senso del peccato, il concetto di grazia e perdono, motivi che segneranno la sua esistenza e il suo cinema. Sarabanda è un intrecciarsi, in un buio denso che solo a tratti viene a dissolversi, di dialoghi – ora distaccati e razionali, ora furenti e drammatici – di quattro persone legate da un rapporto famigliare esasperato da incomprensioni e rimpianti, lacerato da accuse crudeli e spietate, inquinato da attaccamenti al limite del morboso. Uno spaccato umano, un campionario esacerbato da una solitudine interiore tangibile, piagato da sensi di colpa che trova in questi “a duo” d’inusitata crudeltà, la distorta veicolazione di un angosciato bisogno d’amore. Allegoria del vivere di ogni essere umano, per la tragica presa di coscienza del dolore, del senso di vivere e morire, dei dolorosi distacchi affettivi, con sguardi disincantati sul passato e incertezza di quel che possa essere il futuro. Il regista Roberto Andò trascina gli attori in un intenso lavoro di scavo del testo, obbligandoli a rifinire e polire la parola per far emergere le laceranti vibrazioni che si accompagnano e s’incastonano nelle preziose sonorità musicali. In accordo con il potentemente allusivo apparato di scene che segmenta lo spazio scenico (e di luci) ideato da Gianni Carluccio, la regia di Andò riquadra i personaggi, isolandoli con ritagli di luce, o in filmiche inquadrature in primo piano o in un piano sequenza, per farli poi quasi dissolvere, in continuo ed estenuante gioco d’intensificazione verbale o rastremazione. Di alto livello la compagnia dei quattro attori, perfettamente immersi nella buia assenza della scena a vivere il proprio personaggio. Renato Carpentieri, Johan dalla profonda e partecipe recitazione, tagliente come lama nella determinazione di un rivango del passato e ancor più nella demoniaca conflittualità col figlio, è capace di mettere feroci verità sulla sua bocca confessandosi emozionalmente handicappato, analfabeta al sentimento. Raggiunge deliranti punte di straniamento nell’ossessivo finale suo dire. Alvia Reale, Marianne di algida profondità, quasi astratta nell’elegante signorilità espressiva, è capace di profonda tenerezza e solidarietà: nella sottolineatura di parole e ancor più nelle sfumature di variata ricchezza delle conversazioni. In superficie impassibile, è lucida nella conduzione, non per cinismo ma per difesa e ragionevolezza. Elia Schilton, Erik che impressiona con una declamazione tra l’umile e l’untuosa mitezza – che tanto il padre detesta – a svelare complessità di un animo che impiega sospensioni e rallentandi di fraseggio per trovare, alle parole di scusa, quel giusto valore per ricucire con la figlia, in una scena d’intimità che sfida il morboso. Caterina Tieghi, generosamente impegnata a dar vita a Karin, mostrando turbamenti e violente crisi di pianto apre, in intima confessione e lucido scandaglio, il suo animo a Marianne: lo sgelo dei due cuori si percepisce dal cambio di prospettiva in scena, ora una accanto all’altra in un abbandono di complicità femminile salvifico. Ma l’inferno familiare l’aspetta a ben altre prove e l’esorbitante dolore trova sulle sue labbra accenti credibili e commoventi, in una maturazione che la porterà a decidere della sua vita. Sarabanda di Ingmar Bergman, nella traduzione Renato Zatti è una coproduzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo. Costumi di Daniela Cernigliaro, musiche di Pasquale Scialò e suono di Hubert Westkemper. Successo caloroso di un pubblico partecipe e profondamente colpito dall’intensità dello spettacolo. Al CTB Centro Teatrale Bresciano di Brescia fino al 30 marzo.

gF. Previtali Rosti

foto di scena di Lia Pasqualino

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