L’Opera è pur sempre seria

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Fedele all’impegno assunto da diverse stagioni, il Teatro alla Scala mette in cartellone un titolo dello sterminato repertorio barocco, offrendo all’ascoltatore moderno – non necessariamente specialista del repertorio – un avvicinamento e un’immersione in un mondo musicale dall’estetica e dalla tecnica vocale tipica del settecento. Quest’anno la scelta è caduta su L’Opera Seria del quasi dimenticato boemo Florian Leopold Gassmann, compositore ai tempi di Giuseppe II, autore di numerose partiture operistiche che lo portarono ai massimi gradi alla Corte viennese. Ammirato dallo stesso Wolfgang Amadeus Mozart, si ricorda per essere stato il maestro di Antonio Salieri. L’Opera Seria, musicata da Leopold Gassman nel 1769 e composta su un fastoso quanto arzigogolato libretto di Ranieri de’ Calzabigi, andò per la prima volta in scena a Vienna, al Burgtheater. Questo melodramma è la feroce parodia del mondo che ruotava attorno alle opere serie del settecento, ispirandosi al libello satirico di Benedetto Marcello Il teatro alla moda del 1720. Nel primo atto assistiamo all’auto incensazione di un poetucolo e di un compositore di pari livello, della nuova creazione dell’opera seria L’Oranzebe con l’impresario, dal nome che è tutto un programma, Fallito, a tentar vanamente di imporre tagli alla partitura e ai versi del libretto, con il buon senso di comune spettatore e con l’occhio attento all’eccesso di spese di allestimento. Nascono baruffe fra i due artefici, che si estendono rapidamente ai cantanti impegnati nell’opera, tutti a pretendere una visibilità e un riguardo ingiustificati dalla loro modestia d’interpreti. A completare il quadro si aggiungono le mamme delle rispettive primedonne, che niente voglion cedere e a nessuno, la supposta superiorità delle figlie. Malignità di giudizio, accompagnate da capricci e battibecchi, si susseguono. Giunge il terz’atto, dove alfine l’opera seria è messa in scena dopo tante estenuanti prove: fiasco colossale, questo sarà l’esito finale, tanto da consigliare prudentemente Fallito di fuggire. I cantanti, senza più il soldo della paga, si trovano finalmente concordi di pensiero, giurando coralmente eterno odio, in nome di tutte le maestranze impegnate in teatro, agli impresari. Un soggetto non certamente nuovo, ma che sfrutta le inesauribili occasioni di messa in ironia di un mondo, quello del teatro, che allora come oggi, ben porge il destro a facili occasioni di messa alla berlina. Una partitura che mescola abilmente gli stili impiegati nell’opera seria e in quella buffa, dal significato estetico vario e profondo, carico di molteplici significati. Sicuramente affiorano subito le distorsioni che caratterizzano l’ambiente teatrale, ma, a un livello più profondo, l’opera stigmatizza con caustica ironia le carenze, il fascino e le contraddizioni del dramma per musica che inevitabilmente dopo la fioritura metastasiana si era adagiato in forme cristallizzate, suggerisce nuove prospettive formali e più fresche misure stilistiche. Ennesimo esempio di “Opera nell’opera”, sulle consuetudini e le regole della produzione dei melodrammi, sulle “primedonne” di ambo i sessi e sul numero di arie che il loro rango esige, i protettori, le madri invadentissime…Gassmann e Calzabigi spingono all’estremo la caricatura dell’opera seria violentemente esagerandone gli aspetti. Tutto vero, soprattutto se si pensa allo stridente contrasto che spesso viene a crearsi tra la strumentazione di un’aria e il testo cantato. Tutto vero. Eppure sembra di assistere, obtorto collo, in quest’opera di Gassmann dalla scrittura musicale non sempre originalissima e avvincente, seppur ben scritta, proprio alla glorificazione dell’opera seria. Uscendo da teatro si prova lo struggente desiderio di poter assistere a un’Opera seria realizzata col fasto delle sontuose voci che caratterizzavano il Settecento. Un titolo operistico, questo di Gassmann, tolto dal dimenticatoio grazie alla passione e alla competenza di René Jacobs che riesumò questo dimenticato reperto di puro divertimento nel 1994 al festival di Schwetzingen, con successive produzioni in Germania e al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi. L’Opera seria, nuova produzione del Teatro alla Scala in coproduzione con MusikTheater an der Wien, è messa in scena con dovuti tagli, per l’eccessiva lunghezza (e anche per la lentezza esasperata di certi pezzi) che avrebbe obbligato lo spettatore a quasi quattro ore di musica. A dirigere è stato chiamato Christophe Rousset fuoriclasse del repertorio barocco, alla guida di una compagnia di cantanti mediamente tutti di buon livello, però senza un vero fuoriclasse, elemento indispensabile per ogni cast che si accinga nell’ardua impresa di far rivivere i fasti dell’epoca d’oro del belcanto, stagione che si chiuderà inesorabilmente con la Semiramide di Rossini. Ci sono arie in questa partitura molto difficili, che avrebbero richiesto una maggior caratura dei cantanti, per le difficoltà incontrate dai soprani nel registro acuto e nelle colorature, anche se tollerabili in un testo di vetriolesca ironia e comicità, e mascherate da una recitazione partecipata e divertita. In luce si è posto il baritono Pietro Spagnoli, che ben conosce la partitura per aver partecipato (sia impersonando Fallito sia come Delirio) alle precedenti produzioni di Parigi e di Bruxelles.  Sagace conduttore della serata, lo ritroviamo nella produzione scaligera nei panni di Fallito, sornione impresario che cerca di far quadrare il cerchio, padrone del palcoscenico, sicuro nella recitazione e naturalmente ironico, ha cantato con una voce e brillante unita a un fraseggio molto accurato e variegato. Ritornello era Josh Lovell simpaticamente sventato in scena, rende bene l’ingresso (forse l’aria musicalmente più ispirata della partitura) Benchè da te lontano di struggente evocatività, capace di arcate di fiati. Meno convincente nella complessa scena del terz’atto, articolata aria di caricatura guerresca del Primo Musico. Efficace Delirio di Mattia Olivieri e molto funzionale Sospiro di Giovanni Sala, brioso e sostenuto caricaturalmente, anche se debole nei vocalizzi. Julie Fuchs, La Stonatrilla, dall’elegante presenza, ha voce sottile, pulita e fluida, senza registro grave; passa per soprano di coloratura, sempre puntuta e dagli acuti non pronti e timbrati, riesce meglio nell’aria patetica Ah non mi dir e in Pallid’ombra, dove non si respira più la satira dell’opera seria, ma l’imitazione di un topos che tanta fortuna troverà fino alle soglie dell’ottocento. Serena Gamberoni è una vivace e puntuta La Porporina di voce più sostanziosa, vagamente acidulo il timbro, puntuta nel canto e divertente nella messa in ridicolo nella sua aria di paragone con delfini e tonni, anche se non regge tutta la coloratura in legato, con l’orchestra che imita i guizzi del cetaceo. La Smorfiosa è una caricata Andrea Carroll, asprigna negli acuti, gustosa attrice. Passagallo ha il timbro un po’ intubato di Alessio Arduini. Completavano il cast, le “mamme” Bragherona, la meglio simpaticamente definita del tenore Alberto Allegrezza, in trio con la sciabordante Befana di Lawrence Zazzo e la saporita Caverna del sempre puntuale Filippo Mineccia. Direzione informata e sicura di Christophe Rousset che conosce il repertorio come nessun altro e conduce, in percepibile intesa, l’Orchestra del Teatro Alla Scala su strumenti storici e Les Talens Lyriques tra virtuosismi e momenti di gustoso umorismo, brillante e incisivo nel rendere le sfumature della partitura, dal serio al comico. Ma in Scala il roccocò e il barocco con strumenti storici non rende appieno, non appagando per la mancata rotondità di suono per la vastità della sala.  Raffinato spettacolo, dalla convincente e riuscita regia di Laurent Pelly, che riesce a creare una narrazione fluida e ben movimentata, servendosi di mimi che operano a vista; suoi anche i costumi, dalla tinta cipriata e fantasiosi nelle fogge. Tutta l’opera è giocata sul filo dell’ironia, e le coreografie non fanno eccezione mettendo in scena una parodia delle stesse, curate da Lionel Hoche. Scene essenziali di Massimo Troncanetti, nel terzo atto più coinvolgenti, per l’accennato sfarzo e la meraviglia dell’opera barocca, tutto giocato sul pregnante grigio perlaceo che si stende sui costumi e soprattutto sulle scene affascinando lo spettatore. Mimi neri sempre presenti, coscienza nera, fischiatori, affossatori. Pubblico plaudente che punteggiava, dopo l’iniziale perplessità, lo spettacolo con risate a scena aperta. Teatro pieno o quasi, ma che ha dovuto far i conti con le progressive defezioni. Al Teatro alla Scala, recite fino al 9 aprile.

gF. Previtali Rosti

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