Al PAC di Milano fino all’otto giugno 2025 la mostra Body of Evidence

Data:

… in quel vuoto senza fine dove il sole era morto,
nessuno sapeva che il nome di quella triste colomba fuggita dai cuori
era la speranza. Forùgh Farrokhzàd

Al PAC di Milano fino all’otto giugno 2025, è possibile, e fortemente raccomandabile, vedere, vivere, assorbire, sentire sulla nostra pelle, la mostra dedicata a una grande artista, Shirin Neshat, iraniana di nascita, 1957, americana di adozione.

La sua potenza creativa, visiva, significativa, è un messaggio che ci arriva come uno sparo a bruciapelo, ma silenzioso, benefico, attraverso le fotografie della serie “Women of Allah”, ritratti di donne il cui corpo è nascosto dal tradizionale chador, solo le mani e il volto sono esposti agli occhi del mondo, e per questo l’artista li ha minuziosamente intessuti con brani tratti da testi di scrittrici iraniane, per cui il vasto reticolo di quella scrittura in lingua farsi diventa un arabesco, un dipinto che usa la pelle come una pergamena, e da cui solo i loro occhi, sguardi così intensi, sensuali, magnetici, rimangono liberi per parlare. Ogni ritratto ci cattura e ci invita a prenderne atto come se quella donna ritratta fosse lì per noi, con i suoi racconti di violenze, di sacrificio, di resistenza, di umiliazione, di riscatto, sembra un canto lirico, di questo popolo così intriso di tradizione poetica, che risuona nella galleria fotografica, e poi, si spera, si libra nell’aria per raggiungere il mondo esterno. In alcuni ritratti, le donne impugnano un’arma, un revolver, una sciabola, il contrasto è ancora più forte, poesia, sensualità, martirio, morte, tutto divampa e si stempera, causa e conseguenza, azione e reazione.  Le armi come simbolo di odio, assoggettamento, distruzione, oppure strumento di ribellione, vendetta, e finalmente vittoria su un regime sanguinario e tirannico? Forse quei versi in farsi ci raccontano tutto questo… ma non ci è dato di sapere. Solo immaginare.

Ma lasciamo quelle donne, con i loro sguardi che continuano a seguirci, ed entriamo nelle sale per guardare i cortometraggi firmati da Shirin Neshat. Il primo “Fervor”, che fa parte di una trilogia insieme a “Turbolent” e “Rapture”, è un meraviglioso cinematografico racconto, dove tutto è bianco e nero, dalla fotografia, alle vesti delle donne, alle ombre, alle camicie degli uomini, al paesaggio, è la storia di un’attrazione fra una donna e un uomo, un’attrazione che non si conclude, camminano su due rette parallele che il tempo, il luogo, i tabù, impediscono di incontrarsi. La tecnica dello split screen evidenzia maggiormente il cammino di ognuno di loro per cercarsi, sembra che uno insegua l’altro, eppure, quando i loro sguardi finalmente si incrociano, procedono oltre. Dalle labbra della bella donna un piccolo sorriso, così attraente e sublime nell’essere appena accennato, esprime quel desiderio che per forza ha dovuto essere represso.

“Fury” sempre in bianco e nero, è il racconto dell’incubo ricorrente di una detenuta iraniana costretta a danzare davanti a un plotone di esecuzione, il corpo semi nudo coperto di lividi, “intrattiene” i generali, ma poi, spinta da un altro tipo di furore, un furore non più cieco, ma consapevole, si lancia fuori da quel luogo di umiliazione in cerca di libertà. E i passanti la vedono, capiscono e allora ecco la loro furia che si scatena in una danza liberatoria, una marcia di solidarietà, contro la violenza del regime, per le strade di una grande città americana.

Le donne sempre presenti in tutti i video, rigorosamente vestite di nero, occhi penetranti bistrati di nero, camminano con grazia, poi cominciano a correre, a correre lontano, hanno il coraggio di rompere con la tradizione che le vuole sottomesse, osano ribellarsi, le loro figure si stagliano tra le dune di sabbia, deserti pietrosi, aridità e morte.

“Passage” è il video più potente e bello, la musica di Philip Glass segue un corteo di uomini neri che trasportano una salma coperta di un drappo bianco, mentre delle donne radunate in cerchio scavano una fossa. E una bambina, a mani nude, sta preparando una piccola buca, forse metterà un seme, un segno di vita. Tre situazioni che sembrano avulse l’una dall’altra, fino a che un cerchio di fuoco divampa a circondare gli uomini e le donne, lasciando fuori la bambina. Il fuoco venuto a purificare il passato, risparmia una vita nuova, il simbolo di una nuova generazione di donne che non debbano più subire violenze e soprusi.

“Passage”, potremmo guardarlo all’infinito e ritrovarci ogni volta la stessa forza artistica e capacità di raccontare per immagini storie di una terra così lontana, così vicina.

Passato e modernità si intersecano, si fondono, nell’opera di Neshat, c’è sempre il rispetto per la tradizione, la storia e la poesia, ma anche il desiderio di capire, per poter andare oltre un presente così ingiusto, violento, fatto di terrore e di armi, di fanatismo e di incomprensione, ovunque lei volga lo sguardo, da Ovest e Est.

Alla fine bisogna uscire, a malincuore, ma l’esperienza vissuta ci rimarrà sulla pelle, dentro al cuore, nella testa. Non ho dubbi.

A cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti.

La mostra è promossa dal Comune di Milano – Cultura, prodotta dal PAC e Silvana Editoriale e realizzata grazie a Tod’s, con il supporto di Vulcano; partner tecnico Coop Lombardia; si ringrazia Reti S.p.A

Daria D. Morelli Calasso

Seguici

11,409FansMi Piace

Condividi post:

spot_imgspot_img

I più letti

Potrebbero piacerti
Correlati

Chi è Martina Pelone?

"Piacere mi chiamo Martina Pelone il mio nome d’arte...

Angelo Di Bella, il Morandi siciliano

Di Bella oppone alla contemporaneità il tempo della pittura;...