A distanza di cinque anni la Tosca-mania non accenna a scemare. Dopo il delirio d’interesse suscitato dal titolo pucciniano per l’apertura della Stagione 2019/20, Tosca si ripresenta nel cartellone scaligero nello stesso allestimento ideato da Davide Livermore, con il tutto esaurito per le dieci recite in programma. Il melodramma tratto dall’omonimo lavoro di Victorien Sardou, conferma ancora una volta (se mai ce ne fosse stato bisogno) la capacità di seduzione esercitato sul pubblico. Al Teatro alla Scala, l’opera pucciniana ha calamitato spettatori da mezzo mondo, visibilmente felici di assistere alla tragedia d’amore che si consuma nella Roma dei primi dell’ottocento. Prima di tutto viene Tosca. Ancor prima di sapere chi è l’interprete in locandina; prima ancora dello spettacolo che si vedrà sul palcoscenico, il loro interesse è rivolto verso l’opera. E spettacolo nello spettacolo è proprio il pubblico; non quello degli habitué, bensì quello più disponibile dei desiderosi di partecipare a una serata all’opera. Tosca, il dramma sul quale si basa l’opera di Puccini, fu scritto nel 1887 da Victorien Sardou per Sarah Bernhardt. Una pièce che esaltava la geniale recitazione della diva: la grande attrice, al culmine della carriera, fece di Tosca il suo cavallo di battaglia portandola, per venticinque anni, nelle tournée europee e americane. Ferdinando Fontana, librettista delle prime opere pucciniane Le Villi e Edgar, suggerì al compositore il dramma di Sardou, ma entrambi non facevano mistero della scarsa opinione che avevano l’un per l’altro. L’editore Ricordi giunse a un accordo con il drammaturgo francese: Tosca sarebbe stata musicata dal compositore concorrente Alberto Franchetti, Luigi Illica librettista. Una “trama” ordita da Giulio Ricordi, astuto uomo d’affari musicale, per attirare il musicista lucchese; l’editore musicale aveva già intuito che Puccini ne avrebbe ricavato un melodramma eccezionale. Dissuaso Franchetti, ebbe inizio la collaborazione fra Illica, Giacosa e Puccini. Per inserire nel melodramma il “colore” locale più autentico, il compositore andò a Roma ad ascoltare le campane mattutine delle chiese, dai bastioni di Castel Sant’Angelo; scrupolosamente s’interessò ai dettagli sulla liturgia del Te Deum che chiude il primo atto. Poche settimane prima della première, Ricordi fece pressione su Puccini per scartare Amaro sol per te (motivo non utilizzato nella precedente opera Edgar): ma stavolta il compositore non ascoltò il consiglio del suo editore. La prima rappresentazione fu al Teatro Costanzi di Roma, il 14 gennaio 1900, con un cast stellare: Floria Tosca, Haricleé Darclée (protagonista anche della prima milanese, il 17 marzo 1900); Mario Cavaradossi, Emilio De Marchi; Scarpia, Eugenio Giraldoni; Direttore d’orchestra, Leopoldo Mugnone. Accoglienze alterne da parte della critica musicale, ma il pubblico non ebbe dubbi: amò Tosca con passione immediata. Così fu nei principali teatri d’opera del mondo: inizio di una popolarità inarrestabile. Alla Scala Tosca è stata data in moltissime stagioni, ma mai prima del 7 dicembre 2019 aveva avuto l’onore dell’apertura di stagione. Di Tosca sembrava si conoscesse ormai tutto; invece da alcuni anni si presenta la partitura nell’edizione critica di Roger Parker che presenta l’opera pucciniana con alcune varianti, oggetto di ripensamenti da parte del compositore. La sostanziale differenza di questa Tosca consiste in trentatré battute (forse nemmeno mai ascoltate) presenti nella prima edizione Ricordi, oltre a ristabilire alcuni passaggi che il musicista aveva poi espunto. Alcuni per la verità non molto efficaci (giudicando teatralmente convincente la decisione di Puccini di espungerli), altri più interessanti, come le battute nell’ultimo atto. Il motivo d’interesse di questa ripresa risiedeva nell’interprete principale, Chiara Isotton, cantante che ha raggiunto maturità vocale e interpretativa, dimostrandosi artista convincente, anche se l’interpretazione non riusciva particolarmente originale. Buon timbro, voce omogenea e ben proiettata, capacità di colorire ma acuti spinti e non sempre timbrati, più adatti all’invettiva che a esprimere strazio dell’anima. Apprezzabile sul versante interpretativo, con un fraseggio vario (anche se non personalissimo) capace di rendere meglio il versante amoroso, le frasi intime e supplichevoli che quello sensuale e drammaticamente concitate: Quanto? Il prezzo…Commovente nel secondo atto, non così nel primo e nel terzo, in cui gli accenti erano più generici, non disegnando né un personaggio seducente né quello tra dolore e speranza del terzo. “Vissi d’arte” cantato con passione e consoni colori. Il tenore Francesco Meli era un credibile Mario Cavaradossi che si lascia apprezzare più per il colore di voce che per una tecnica vocale adamantina. Affascinante nell’aria di sortita, s’impegna per tutto il resto dell’opera: tenta raffinatezze vocali, smorza, ma “apre” spesso il suono e le mezze voci non sono ben sostenute. Interprete generico, senza grande scavo del personaggio, pur prestando all’innamorato pittore il timbro di una voce calda e abbastanza fascinosa, capace di suscitare applausi a scena aperta, come in E lucean le stelle, cantato con la lacrima nella voce. Il Barone Scarpia, unico personaggio a tutto tondo dell’opera, era impersonato dal baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat parso un po’ sotto tono, senza la dovizia di suono cui ci ha abituati: la voce non si espande come dovrebbe e non si gusta il timbro che sembra opaco. Apprezzabile interprete, delinea un personaggio imperioso e genericamente bieco, per quanto il fraseggio sia sempre alquanto prevedibile, senza traccia di nobiltà o belluina sensualità. Argutamente caratterizzato da buona voce il Sagrestano di Marco Filippo Romano, e nel resto della compagnia di canto si distingueva Carlo Bosi, nella febbrile interpretazione di Spoletta. Mediocrissimo Angelotti, dal timbro cavernoso e voce intubata di Huanhong Li. Funzionali gli altri. Michele Gamba dirige bene, sfodera un innegabile senso dei tempi teatrali, offre ritmi interessanti, ma l’impressione generale è di una direzione funzionale e narrativa, più che veramente passionale e partecipe, senza imprimere precisa peculiarità interpretativa. Lo spettacolo, segnato dall’horror vacui, portava la firma di Davide Livermore: tanta roba in scena (gran su e giù di colonne…), tanta gente; suorine esagitate che a palazzo Farnese prendono anche appunti… e Agenti di una qualche polizia segreta o Sgherri caserecci che si muovono in modo inspiegabile e sempre affrettato. Sontuosità di masse – quanto costellato d’inappropriatezze liturgiche – per il corteo del Te Deum, che farebbe sorridere qualsiasi liturgista. Spettacolo senza una fondante idea registica (ripreso da Alessandra Premoli) offre qualche emozione nell’incalzare cinematografico degli eventi, con luci da film alle entrate in scena di Angelotti e Scarpia. E Tableaux vivants, a far rivivere storici quadri, lassù, in alto (a beneficio della platea…), ma censurabile flash back di Tosca dell’uccisione di Scarpia. Per tacere del finale dell’opera. Scene di Giò Forma, costumi di Gianluca Falaschi (quanto inelegante quello sfumante in bicolore di Tosca a Palazzo Farnese) e le preziose luci di Antonio Castro. Successo caloroso per tutti gli interpreti della compagnia di canto e per il direttore.
gF. Previtali Rosti