Death of a Unicorn: tra B-movie, satira sociale e creature mitiche

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Death of a Unicorn, debutto alla regia di un lungometraggio per Alex Scharfman, è una commedia dark che scardina in modo inaspettato l’immaginario pop legato agli unicorni. Dimenticate i colori pastello e le icone da zaino scolastico: qui gli unicorni sono creature mitologiche ambigue, temibili e affilate, più vicine alla tradizione medievale che li voleva portatori di morte per chi osava catturarli.

La storia prende il via quando l’adolescente Ridley (Jenna Ortega) e suo padre Elliott (Paul Rudd) investono accidentalmente un cucciolo di unicorno durante un viaggio in Canada, diretti alla tenuta di un magnate farmaceutico (Richard E. Grant). L’incidente scatena una spirale di eventi che mescola elementi favolistici, etica scientifica e critica sociale. L’animale, si scopre, ha proprietà miracolose: può guarire qualunque male. Ma proprio per questo, il suo destino diventa oggetto di contesa e sfruttamento. I padroni di casa – l’élite farmaceutica incarnata da personaggi cinici e manipolatori – vedono nell’unicorno non un essere da proteggere, ma una risorsa da spremere fino all’ultima goccia, incuranti delle conseguenze.

Il film alterna in modo audace momenti di intimità familiare a sequenze splatter, in cui gli unicorni — qui reinventati con denti affilati e comportamento predatorio — seminano panico e sangue. Tanto è crudele vederli soffrire, trafitti, esaminati e strumentalizzati dagli umani, quanto è soddisfacente assistere alla loro ribellione, quando tornano a predominare e azzannano senza pietà “i cattivi” con i loro morsi animaleschi. Una vendetta ancestrale, guidata dall’istinto e dalla natura.

Visivamente, l’estetica degli unicorni è discontinua: la CGI risulta a tratti efficace, ma spesso non all’altezza delle ambizioni visionarie del film. Anche la sceneggiatura, pur reggendo nell’impianto generale, mostra alcune fragilità: rallenta nei passaggi centrali e si appoggia a una critica alla classe dirigente già ampiamente esplorata in altri contesti narrativi.

Molti hanno accostato il film a The Menu, non solo per il taglio satirico che smaschera l’élite privilegiata, ma anche per la scelta di ambientare quasi tutta l’azione in una singola location isolata, creando una sensazione di claustrofobia e controllo. Tuttavia, sarebbe stato forse più interessante approfondire la parte legata alla mitologia degli unicorni e alla loro ribellione, spingendo con decisione il film verso il territorio del B-movie classico, in cui la natura si vendica dell’arroganza umana.

In un’intervista, Scharfman ha dichiarato di aver concepito l’idea per Death of a Unicorn circa dieci anni fa e di aver lavorato attivamente al progetto per quasi cinque anni. Una lunga gestazione che traspare nella cura con cui costruisce l’universo visivo e concettuale del film, sebbene non sempre in modo uniforme.

A chiudere il racconto è un finale sorprendentemente tenero e riconciliatorio, che riporta al centro il legame tra Ridley e suo padre, lasciando però anche una porta aperta all’immaginazione: cosa succederebbe se queste creature magiche e feroci decidessero davvero di restare?

Death of a Unicorn è al cinema dal 10 aprile distribuito da I Wonder Pictures.

Federica Guzzon

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