Fedra, consumata da passione

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Federico Tiezzi porta in scena, al Piccolo Teatro Strehler, Fedra di Jean Racine, testo che gli bruciava dentro da vari decenni riportando così nel circuito dei teatri italiani, dopo troppi anni di assenza, il capolavoro di Jean Racine, da lui stesso definita la migliore delle sue tragedie. Opera magistrale, Fedra, come del resto tutta la produzione del grande tragico francese, è sempre stata poco rappresentata nel nostro paese. Diversi i problemi, legati alla difficoltà di tradurre gli splendidi versi alessandrini (tramutata col tempo in pregiudizio d’irrappresentabilità), di un teatro dai toni così “alti” e sublimi. Il testo poi necessita in maniera irrinunciabile di una compagnia di livello, con una protagonista di spiccata personalità e valore. La produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatri di Pistoia, Compagnia Lombardi-Tiezzi, regia di Federico Tiezzi, è riuscita ad assolvere tutti i requisiti, utilizzando la traduzione in versi di Giovanni Raboni, curata sulla scorta di una lunga frequentazione poetica e teatrale, oltre a mettere assieme una compagnia di attori di livello in cui spicca una delle migliori attrici del teatro italiano odierno: Elena Ghiaurov. La tragedia di Phedre fu rappresentata per la prima volta il 1 gennaio 1677, molto probabilmente a Parigi, all’Hotel de Bourgogne: il ruolo principale fu interpretato, dicono in modo ammirabile, da Marie Desmares detta la Champmeslé, che era stata la prima interprete delle opere raciniane a partire da Britannicus del 1669. Racine dichiara nella prefazione della tragedia che il soggetto è preso dall’Ippolito incoronato di Euripide ma, pur imitando alcune scene, l’autore segue una differente via nello svolgimento dell’azione. La seconda fonte cui attinge è Fedra di Seneca, principalmente per la scena in cui di Fedra confessa a Ippolito la sua ignominiosa passione. In nessuna delle sue tragedie Racine ha dipinto con colori così diversi l’influenza dell’amore sugli esseri umani. Tutti i personaggi dell’opera sono innamorati: Teseo ha corso le sue avventure per conquistarsi qualche nuova amante; Aricia disprezza gli amori troppo facili ma aspira a vincere un cuore che si ribella; Ippolito, che disdegna la debolezza amorosa, non sa resistere al fascino di Aricia; Fedra infine, è follemente presa dalla passione per il figliastro Ippolito, vittima e preda di Venere, amante gelosa e crudele. Se i drammi dell’ambizione umana per un attimo sembrano mescolarsi a quelli del cuore, ecco che si eclissano velocemente: Ippolito dona il trono d’Atene ad Aricia proprio perché la ama; Fedra è pronta a spodestare il figlio legittimo, usando questo mezzo per tentare di conquistarsi l’amore di Ippolito. I grandi momenti della tragedia sono quindi le scene dove si esprime l’amore: tutto il secondo atto è pieno di confessioni amorose, pudiche quelle di Aricia, impacciate quelle di Ippolito, deliranti quelle di Fedra: e, in questa sorta di sinfonia di dichiarazioni, domina, sbalorditiva e maledetta, la passione fatale della protagonista. Opera classica della letteratura e del teatro francesi, Fedra, una delle ultime tragedie profane di Racine, fu interpretata dalle più illustri attrici quali M.lle Georges, Sarah Bernhardt e Maria Casarès, che con essa riportarono clamorosi successi, mentre in Italia ricordiamo la grandissima Adelaide Ristori, protagonista indiscussa della scena ottocentesca, Diana Torrieri, Annamaria Guarnieri diretta da Luca Ronconi e l’ultima grande interpretazione quella di Mariangela Melato. Il regista Federico Tiezzi allestisce oggi un raffinatissimo e stilizzato spettacolo, dall’impianto razionale e onirico al tempo stesso, dai continui rimandi a uno scavo interiore dei personaggi, portando a giorno il segreto del loro inconscio. La Grecia classica, nello specifico del Palazzo di Trezene, è evocata da sculture e arredi marmorei investiti (come gli attori) da sapienti luci che li mettono in rilievo; un ambiente astratto e di corte reale, ma squisitamente francese nell’atmosfera che il verso di Racine ci fa respirare. La regia, calcolata in ogni suo gesto e molto estetizzante, crea forti suggestioni si tesse in un continuo melange di realtà e simbolo, in una straniante. Lo stesso per i costumi, commistione funzionale fra gorgiere seicentesche e abiti senza connotazione di tempo, con decise puntate al nero arricchito da paillettes; solo a Teseo è riservato il rosso, di sfolgorante mantello. Fedra appare, in cabarettistico sberluccicante ingresso musicale, come femme fatale che irretisce con una variazione del truc en plume e canta, suadente. Il suo impossibile sogno d’amore. La musica la fa da padrone, ordito spettacolare che marca e scandisce il dramma: Je crois entendre encore, romanza di Nadir da Les pêcheurs de perles di Bizet (si poteva optare per miglior versione, che il tenore scelto, “sbianca” sgradevolmente quando sale in acuto…) e il più che significativo lamento di Didone, When I am laid in earth di Henry Purcell. E il sipario, un velario splendido e sfavillante si apre su una sala da museo, algida e vivificata da busti e sedie sbilenche, lampadari in cristallo e bonsai, con il prezioso sfondo del quadro di Guido Reni con Ippomene che lancia la palla d’oro che fermerà la corsa della curiosa Atalanta, sempre vincitrice nelle gare. Ottima performance di Elena Ghiaurov, personale e convincente Fedra esalta, con un continuo trasmutare di voce, le forti pulsioni che la muovono; efficace nella costruzione di una regina accesa da passioni insanabili, fa della protagonista l’incarnazione del sentimento assoluto. Con ricchezza di fraseggio e sfaccettature di colori svela le due antitetiche persone che la abitano, quella sensuale cui niente si sottomette, volitiva nell’accento imperioso che giunge sino all’urlo di scomposte passioni e l’altra più dolce nell’impersonare un’umanità e una femminilità tremebonda di passione e amore, in bella lotta contro se stessa, con continue oscillazioni interiori, a non mostrare la fragilità. Passa eloquentemente da una dirompente passione a un’analisi rigorosa di se, dal ruolo di consorte regale e di discendente dell’infelice stirpe da cui è stata generata, mostrando un susseguirsi di contraddizioni, Donna a tutto tondo che, vinta a se stessa, non abdica al fuoco che la consuma e si dà la morte, stravolta in accenti di fumante gelosia per la coppia che si ama e dall’orrore di sé. Riccardo Livermore è un Ippolito reso più umano e capace di suscitare adesione, anche se il personaggio raciniano resta pur sempre convenzionale e privo di grande psicologia e sfumature. Valente nel mancato sguardo, pudico nel raffrenamento del disgusto alla confessione del sentimento amoroso di Fedra, riesce più credibile nello svelamento del sentimento ad Aricia, nel cambio di pensiero sull’amore, mostrando cedimenti e debolezze umane, senza compromettere la sua grandezza e nobiltà d’animo. Bruna Rossi era un’intensa Enone che, per affetto e passione per la regina, sposa la parte dell’esaltazione femminile del sentimento e, contraddicendo le leggi della morale si fa anima nera di perdizione.  Enigmatica nel suo apparire, autenticamente complice è accecata – con metaforica benda all’occhio – per liberare Fedra dal celato e innominabile segreto che la tortura, trova capziose giustificazioni per rendere il sentimento libero dalla prigionia imposta dalla società. Bella e intensa la figura del precettore Teramene, impersonato da un superbo Massimo Verdastro, passionale dicitore di quei versi che siamo disavvezzi a sentire. Trova accenti di sincera amicizia e compartecipe dolore al racconto della tragica morte di Ippolito. Catherine Bertoni de Laet presta ad Aricia una bella presenza, trova accenti non particolarmente personali confessando il suo sentimento amoroso, cercando sulle prime di reprimerlo. Teseo era Martino D’Amico cui è imposta una recitazione quasi discorsiva, a staccarsi completamente dagli altri, con contorto copricapo di chi non sa o non vuol vedere. Sbrigativo e senza scrupoli nel suo eloquio parlato, cede comodamente alle impressioni di colpevolezza del figlio. Brava la confidente Ismene di Valentina Elia, sapiente nel placare le inquiete figure dei protagonisti. Scenografie di Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi, costumi di Giovanna Buzzi, luci di Gianni Pollini, direzione del canto Francesca Della Monica e movimenti coreografici di Cristina Morganti. La tragedia di Racine reclama un pubblico capace di lasciarsi coinvolgere dalla rappresentazione di strutture archetipe di passioni e di comportamenti senza tempo, e gli spettatori del Piccolo sono rimasti affascinati, ancora una volta, dalla coinvolgente modernità dei classici, tributando un meritatissimo e reiterato caloroso applauso finale. Al Piccolo Teatro di Milano, fino al 17 aprile.

gF. Previtali Rosti

Foto Luca Manfrini

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