Il sassofonista e compositore Enzo Favata ci conduce nel racconto del suo concerto solista ad Abu Dhabi, un momento sospeso nel tempo, divenuto un’esperienza unica: un incontro magico dove la sperimentazione sonora e la fusione di culture lontane si sono intrecciate in un solo respiro.
La sua musica, nutrita dalla terra antica di Sardegna e vibrante nello spazio del mondo, narra storie che vanno oltre il suono—attraversano i confini, si aprono al nuovo, si fanno accoglienza.
Un viaggio che celebra la forza di un dialogo autentico tra le culture, dove la musica si fa ponte invisibile, linguaggio dell’anima, spazio d’unione universale.
La sua musica, nutrita dalla terra antica di Sardegna e vibrante nello spazio del mondo, narra storie che vanno oltre il suono—attraversano i confini, si aprono al nuovo, si fanno accoglienza.
Un viaggio che celebra la forza di un dialogo autentico tra le culture, dove la musica si fa ponte invisibile, linguaggio dell’anima, spazio d’unione universale.
di Katya Marletta
Com’è nata l’idea di questo concerto solista ad Abu Dhabi?
In modo molto casuale. Spesso faccio scali a Dubai e Abu Dhabi durante i miei viaggi verso l’Asia. Stavo rientrando dall’India, dove avevo fatto una serie di concerti con musicisti indiani e registrato anche un disco. Durante lo scalo ad Abu Dhabi, ho contattato l’Istituto Italiano di Cultura e la direttrice, la Prof.ssa Susanna Iacona Salafia, ha apprezzato molto la mia proposta — e così eccomi qui.
È la mia prima volta negli Emirati. Ho trovato una situazione molto viva, soprattutto da un punto di vista culturale.
È la mia prima volta negli Emirati. Ho trovato una situazione molto viva, soprattutto da un punto di vista culturale.
Durante il concerto ha parlato del suo amore per i viaggi e per cogliere lo spirito dei luoghi che attraversi. Che atmosfera ha trovato qui negli Emirati?
Molto stimolante. Per dare un contesto: ho trovato un ambiente culturalmente vivace, con una curiosità che mi ha ricordato l’Italia degli anni ’90. Dopo l’indifferenza degli anni ’80, in quel periodo ci fu un fermento culturale: nascevano iniziative, festival, e la gente andava a vedere tutto, spinta dalla curiosità e dalla voglia di conoscere.
Abu Dhabi mi ha dato la stessa sensazione, forse in contrasto con Dubai, più orientata alla nightlife.
La sera prima del concerto sono andato a visitare vari musei, tra cui il Louvre. Lì ho capito davvero l’idea di fusione tra culture e tradizioni: è anche questo il senso della mia musica, che ho ritrovato riflesso nelle opere d’arte e persino nell’architettura che le ospita.
Abu Dhabi mi ha dato la stessa sensazione, forse in contrasto con Dubai, più orientata alla nightlife.
La sera prima del concerto sono andato a visitare vari musei, tra cui il Louvre. Lì ho capito davvero l’idea di fusione tra culture e tradizioni: è anche questo il senso della mia musica, che ho ritrovato riflesso nelle opere d’arte e persino nell’architettura che le ospita.
Il suo concerto ha una forte componente sperimentale. Come sceglie gli strumenti e le tecnologie per le sue performance da solista?
Il mio concerto solista è la somma del mio percorso musicale. Unisce i suoni acustici del sax soprano e clarinetto basso — i miei strumenti principali da sempre — con l’elettronica.
Negli anni ’90 ho iniziato a sperimentare con i pedali da chitarra, facendo passare il suono degli strumenti acustici attraverso effetti. All’epoca usavo anche registratori a bobina — quelle macchine enormi che oggi sono rarità ma vere opere d’arte.
Mi ispiravo alla musica contemporanea e alla musica concreta, oggi chiamata field recording o soundscape.
Sono figlio di John Coltrane, ma anche dei Pink Floyd, Tangerine Dream, Maderna, Weather Report e di tutta la scena psichedelica e sperimentale degli anni ’70.
Oggi tutto è più compatto: il laptop, i programmi di produzione musicale, i sample player modificabili in tempo reale e i pedali che uso per registrare e ripetere ciò che suono.
Con questi strumenti posso trasformare un sax in un quartetto, o creare texture sinfoniche dal vivo usando librerie sonore.
Bit dopo bit, strumento dopo strumento, il pubblico si rende conto che il suono si trasforma in un’orchestra.
Creo mondi paralleli con questi sistemi, lontani dall’esposizione classica di melodia e armonia. Miscelo suoni acustici e sintetici per generare qualcosa di davvero originale.
Negli anni ’90 ho iniziato a sperimentare con i pedali da chitarra, facendo passare il suono degli strumenti acustici attraverso effetti. All’epoca usavo anche registratori a bobina — quelle macchine enormi che oggi sono rarità ma vere opere d’arte.
Mi ispiravo alla musica contemporanea e alla musica concreta, oggi chiamata field recording o soundscape.
Sono figlio di John Coltrane, ma anche dei Pink Floyd, Tangerine Dream, Maderna, Weather Report e di tutta la scena psichedelica e sperimentale degli anni ’70.
Oggi tutto è più compatto: il laptop, i programmi di produzione musicale, i sample player modificabili in tempo reale e i pedali che uso per registrare e ripetere ciò che suono.
Con questi strumenti posso trasformare un sax in un quartetto, o creare texture sinfoniche dal vivo usando librerie sonore.
Bit dopo bit, strumento dopo strumento, il pubblico si rende conto che il suono si trasforma in un’orchestra.
Creo mondi paralleli con questi sistemi, lontani dall’esposizione classica di melodia e armonia. Miscelo suoni acustici e sintetici per generare qualcosa di davvero originale.
La Sardegna è sempre presente nella sua musica. Lo è stata anche in questo concerto?
Quando suono da solo, mi sento come un pittore davanti a una tela bianca. A seconda del mio umore e del pubblico, scelgo la mia tavolozza sonora.
La Sardegna emerge spesso, specialmente quando uso strumenti etnici o moltiplico i sax in modo da creare strumenti che suonano danze.
Ma lo spirito sardo è presente in tutto ciò che compongo — anche per quartetto o orchestra sinfonica.
Molti non sanno che la Sardegna è stata dominata dagli spagnoli per 300 anni, prima ancora dai romani, dagli arabi, dai fenici… e ci sono persino riferimenti al popolo dei Shardana in Egitto e in Scozia.
Anche la lingua sarda è un mosaico di tutte queste influenze. Questo è il DNA della cultura sarda, e io cerco di rappresentarlo.
La Sardegna emerge spesso, specialmente quando uso strumenti etnici o moltiplico i sax in modo da creare strumenti che suonano danze.
Ma lo spirito sardo è presente in tutto ciò che compongo — anche per quartetto o orchestra sinfonica.
Molti non sanno che la Sardegna è stata dominata dagli spagnoli per 300 anni, prima ancora dai romani, dagli arabi, dai fenici… e ci sono persino riferimenti al popolo dei Shardana in Egitto e in Scozia.
Anche la lingua sarda è un mosaico di tutte queste influenze. Questo è il DNA della cultura sarda, e io cerco di rappresentarlo.
Ha un approccio narrativo al suo modo di suonare. C’è una storia dietro questo live ad Abu Dhabi?
È parte del mio percorso. Ho scritto molte colonne sonore per film e spettacoli di danza. Il principio è sempre raccontare storie.
In questo concerto non c’era molto tempo per costruire una narrazione, ma il giorno dopo è successo qualcosa di straordinario che potrebbe ispirarne una in futuro.
In questo concerto non c’era molto tempo per costruire una narrazione, ma il giorno dopo è successo qualcosa di straordinario che potrebbe ispirarne una in futuro.
Come si adatta il suo linguaggio jazzistico a contesti culturali così diversi?
Se pensiamo al jazz solo come musica afroamericana, è complicato. Molti musicisti hanno provato ad aggiungere un tocco “etnico”, ma spesso il risultato era superficiale: jazz puro con una copertina esotica.
Per lavorare con culture diverse bisogna capire la lingua musicale e la psicologia degli altri musicisti. Serve tempo, studio, umiltà.
Io lavoro in questo modo da 30 anni, scomponendo e ricostruendo la mia musica.
E soprattutto: bisogna creare un legame umano. Se non ti connetti con chi suoni, non potrai mai collaborare davvero.
Per lavorare con culture diverse bisogna capire la lingua musicale e la psicologia degli altri musicisti. Serve tempo, studio, umiltà.
Io lavoro in questo modo da 30 anni, scomponendo e ricostruendo la mia musica.
E soprattutto: bisogna creare un legame umano. Se non ti connetti con chi suoni, non potrai mai collaborare davvero.
Progetti futuri con l’Istituto Italiano di Cultura?
Lo staff dell’Istituto è molto aperto e ha una visione chiara della diplomazia culturale.
Purtroppo non tutti i rappresentanti culturali italiani hanno questo approccio. Spesso si limitano a presentare un grande concerto e dire: “Questa è la nostra musica, prendila o lasciala”.
Ma la cultura italiana è anche il modo in cui gli italiani si relazionano con il mondo: con empatia, curiosità e voglia di mediazione.
Collaborare con le culture locali è fondamentale: questo è il senso vero della diplomazia culturale. Sono molto contento del lavoro dell’Istituto Italiano di Cultura di Abu Dhabi, dalla direttrice allo staff.
Purtroppo non tutti i rappresentanti culturali italiani hanno questo approccio. Spesso si limitano a presentare un grande concerto e dire: “Questa è la nostra musica, prendila o lasciala”.
Ma la cultura italiana è anche il modo in cui gli italiani si relazionano con il mondo: con empatia, curiosità e voglia di mediazione.
Collaborare con le culture locali è fondamentale: questo è il senso vero della diplomazia culturale. Sono molto contento del lavoro dell’Istituto Italiano di Cultura di Abu Dhabi, dalla direttrice allo staff.
Ha avuto modo di suonare con musicisti locali durante il suo soggiorno?
Assolutamente sì, ed è stato bellissimo. La sera del concerto è venuto a trovarmi un amico che non vedevo da 30 anni: Naseer Shamma, grande virtuoso dell’oud arabo, famoso in tutto il mondo, soprattutto nel mondo arabo.
Vive ad Abu Dhabi, dove dirige una scuola di musica.
Dopo il concerto mi ha invitato da lui. Avevo un volo per l’Italia alle 2 di notte, ma non ho esitato.
Alla sua scuola ho incontrato dieci musicisti straordinari: siriani, egiziani, marocchini, palestinesi… e sardi!
Abbiamo suonato e improvvisato insieme, creando melodie ispirate alla tradizione araba. Sono rimasto fino all’ultimo secondo, con dentro di me una sensazione bellissima. Con Naseer stiamo progettando un grande evento che riunisca musicisti da tutto il mondo. L’idea è di debuttare proprio ad Abu Dhabi.
Vive ad Abu Dhabi, dove dirige una scuola di musica.
Dopo il concerto mi ha invitato da lui. Avevo un volo per l’Italia alle 2 di notte, ma non ho esitato.
Alla sua scuola ho incontrato dieci musicisti straordinari: siriani, egiziani, marocchini, palestinesi… e sardi!
Abbiamo suonato e improvvisato insieme, creando melodie ispirate alla tradizione araba. Sono rimasto fino all’ultimo secondo, con dentro di me una sensazione bellissima. Con Naseer stiamo progettando un grande evento che riunisca musicisti da tutto il mondo. L’idea è di debuttare proprio ad Abu Dhabi.
Cosa si porta a casa da questa esperienza?
È stato un lungo viaggio, dall’India agli Emirati. Puoi immaginare il contrasto, sociale, urbano, umano.
Questi contrasti generano emozioni e idee. Da entrambi i luoghi porto con me il desiderio di tornare.
Questi contrasti generano emozioni e idee. Da entrambi i luoghi porto con me il desiderio di tornare.
Ha in programma concerti solisti in luoghi simbolici o insoliti?
Sì. Ho un progetto che durerà un anno a partire da quest’estate. Suonerò da solo in posti particolari nel mondo: sul mare, in montagna, dentro grotte… con tanta gente o anche da solo. Ne uscirà un lungo video, un viaggio visivo e sonoro immerso nei luoghi e nella natura.
Se potessi scegliere, mi piacerebbe tantissimo suonare da solo ad Abu Dhabi, sul mare, o dentro il Louvre, su quella scala che finisce sull’acqua.
Nel frattempo, continuerò a girare con i miei progetti: i quintetti The Crossing e Atlantico, e con orchestre sinfoniche.
Suonerò alla Festa della Repubblica Italiana all’Opera di Oslo, poi all’Expo di Osaka, poi a Tokyo al Jirokichi con i miei amici jazzisti giapponesi.
E prima ancora, sarò in Mozambico con The Crossing e musicisti locali.
La mia musica è sempre in movimento.
Se potessi scegliere, mi piacerebbe tantissimo suonare da solo ad Abu Dhabi, sul mare, o dentro il Louvre, su quella scala che finisce sull’acqua.
Nel frattempo, continuerò a girare con i miei progetti: i quintetti The Crossing e Atlantico, e con orchestre sinfoniche.
Suonerò alla Festa della Repubblica Italiana all’Opera di Oslo, poi all’Expo di Osaka, poi a Tokyo al Jirokichi con i miei amici jazzisti giapponesi.
E prima ancora, sarò in Mozambico con The Crossing e musicisti locali.
La mia musica è sempre in movimento.
———————————————–
Enzo Favata: A Journey on the Waves of Music Toward the Infinite
Saxophonist and composer Enzo Favata welcomes us into the story of his solo concert in Abu Dhabi—a moment suspended in time transformed into a unique experience: a magical encounter where sonic experimentation and the fusion of distant cultures merged in a single breath. His music, nourished by the ancient land of Sardinia and resonating worldwide, tells stories beyond sound—crossing boundaries, opening to the unknown, and embracing the other. It is a journey that celebrates the power of authentic dialogue between cultures, where music becomes an invisible bridge, a language of the soul, a universal space of connection.
by katya Marletta
How did the idea for this solo concert in Abu Dhabi come about?
Very casually. I often have layovers in Dubai and Abu Dhabi while travelling to Asia. I was returning from India, where I had performed a series of concerts with Indian musicians and recorded an album. During a stopover in Abu Dhabi, I contacted the cultural institute, which really liked my proposal—and here I am. It’s my first time in the Emirates, and I found a vibrant environment, especially culturally.
As you mentioned during your concert, you love travelling and absorbing the spirit of the places you explore, enriching your music with new perspectives. What kind of atmosphere did you find here in the Emirates?
It was very exciting. To give some context, I found the environment culturally vibrant, with a spirit of curiosity reminiscent of Italy in the 1990s. After the indifference of the ’80s, there was a cultural revival—festivals and events were born, and people attended out of curiosity and a thirst for knowledge. Abu Dhabi gave me that same feeling, perhaps in contrast to the nightlife-driven vibe of Dubai.
The night before my concert, I visited several museums, including the Louvre. That’s where I fully understood the concept of blending traditions and cultures—which is also the essence of my music. I saw it reflected in the enormous artworks and the architecture that houses them.
The night before my concert, I visited several museums, including the Louvre. That’s where I fully understood the concept of blending traditions and cultures—which is also the essence of my music. I saw it reflected in the enormous artworks and the architecture that houses them.
Your concert has a strong experimental element. How do you choose the instruments and technologies for your solo performances?
My solo work is the sum of my musical journey. It combines the acoustic sounds of my soprano saxophone and bass clarinet—my core instruments since I began playing jazz. In the ‘90s, I started experimenting by running these instruments through guitar pedals, transforming their acoustic output. I also worked with reel-to-reel tape recorders—those bulky, rare machines now almost museum pieces.
I was influenced by global contemporary music and musique concrète (now often called field recording or soundscape). I’m a child of John Coltrane but also of Pink Floyd, Tangerine Dream, Maderna, and Weather Report—all the psychedelic and experimental scenes of the ‘70s.
Today, these tools are more compact: the laptop, music production software, real-time sample manipulation, and pedals that let me record, loop, and play with melodies live. I can turn a single saxophone into a quartet or blend it with orchestral textures using digital libraries. Bit by bit, the sound grows until it becomes an orchestra.
These tools let me create parallel worlds beyond a solo instrument’s traditional melody/harmony exposition. I blend acoustic and synthetic elements to produce something truly original.
My solo work is the sum of my musical journey. It combines the acoustic sounds of my soprano saxophone and bass clarinet—my core instruments since I began playing jazz. In the ‘90s, I started experimenting by running these instruments through guitar pedals, transforming their acoustic output. I also worked with reel-to-reel tape recorders—those bulky, rare machines now almost museum pieces.
I was influenced by global contemporary music and musique concrète (now often called field recording or soundscape). I’m a child of John Coltrane but also of Pink Floyd, Tangerine Dream, Maderna, and Weather Report—all the psychedelic and experimental scenes of the ‘70s.
Today, these tools are more compact: the laptop, music production software, real-time sample manipulation, and pedals that let me record, loop, and play with melodies live. I can turn a single saxophone into a quartet or blend it with orchestral textures using digital libraries. Bit by bit, the sound grows until it becomes an orchestra.
These tools let me create parallel worlds beyond a solo instrument’s traditional melody/harmony exposition. I blend acoustic and synthetic elements to produce something truly original.
Sardinia is always present in your music. Did it appear in this concert, too?
When I perform solo, I feel like a painter in front of a blank canvas. I choose my sonic palette depending on my mood and the audience.
Sardinia often emerges, especially when I use ethnic instruments or layer saxophones to create rhythmic dances. But the Sardinian spirit is present in everything I compose—whether for solo, quartet, or symphonic orchestra.
Many people don’t realise that the Spanish ruled Sardinia for 300 years and the Romans before that. It also had influences from Arabs, Phoenicians, and even the Shardana people, who are referenced in Egyptian and Scottish history.
Our language is a mosaic of those influences. This cultural DNA shapes Sardinian identity, and I try to reflect that in my music.
Sardinia often emerges, especially when I use ethnic instruments or layer saxophones to create rhythmic dances. But the Sardinian spirit is present in everything I compose—whether for solo, quartet, or symphonic orchestra.
Many people don’t realise that the Spanish ruled Sardinia for 300 years and the Romans before that. It also had influences from Arabs, Phoenicians, and even the Shardana people, who are referenced in Egyptian and Scottish history.
Our language is a mosaic of those influences. This cultural DNA shapes Sardinian identity, and I try to reflect that in my music.
Your performances often have a narrative quality. Is there a story behind your Abu Dhabi concert?
It’s part of a larger journey. I’ve composed soundtracks for films and dance pieces. Storytelling is central to my work.
This particular concert didn’t leave much space for storytelling—but something extraordinary happened the day after that might inspire a story in the future.
It’s part of a larger journey. I’ve composed soundtracks for films and dance pieces. Storytelling is central to my work.
This particular concert didn’t leave much space for storytelling—but something extraordinary happened the day after that might inspire a story in the future.
How does your jazz language adapt to such diverse cultural contexts?
If you think of jazz only in the Afro-American tradition, things get complicated. Many artists have tried to create “ethnic jazz,” but often, the result is superficial—a jazz album with an exotic cover. That approach fails to engage with the other culture.
To collaborate meaningfully, you must understand the other musician’s language and psychology. That requires time, study, and humility. I’ve been doing this for 30 years, deconstructing and rebuilding my music to fit new contexts.
And above all, I would like you to connect personally. Without that human connection, creating something real with musicians from another tradition is impossible.
If you think of jazz only in the Afro-American tradition, things get complicated. Many artists have tried to create “ethnic jazz,” but often, the result is superficial—a jazz album with an exotic cover. That approach fails to engage with the other culture.
To collaborate meaningfully, you must understand the other musician’s language and psychology. That requires time, study, and humility. I’ve been doing this for 30 years, deconstructing and rebuilding my music to fit new contexts.
And above all, I would like you to connect personally. Without that human connection, creating something real with musicians from another tradition is impossible.
How was your experience with the Italian Cultural Institute? Do you have plans with them?
The staff was open-minded and had a strong sense of cultural diplomacy. Sadly, not all cultural institutions aim to build real bridges between Italian culture and the host country. Too often, they showcase Italian culture in a one-way display: “Here’s our music, take it or leave it.”
However, Italian culture also means how Italians interact—with curiosity, empathy, and a problem-solving spirit, which differs significantly from Anglo-Saxon approaches.
Collaborating with local cultures is essential. That’s real cultural diplomacy—listening and creating together. I was really pleased with how the Abu Dhabi Institute works, from the director to the entire team.
However, Italian culture also means how Italians interact—with curiosity, empathy, and a problem-solving spirit, which differs significantly from Anglo-Saxon approaches.
Collaborating with local cultures is essential. That’s real cultural diplomacy—listening and creating together. I was really pleased with how the Abu Dhabi Institute works, from the director to the entire team.
Did you have a chance to interact with local musicians during your visit?
Yes, absolutely. The night of my concert, an old friend I hadn’t seen in 30 years came to visit—Naseer Shamma, a world-renowned oud virtuoso. He lives in Abu Dhabi and runs a music school.
After the concert, he invited me over. Despite having a 2:00 AM flight, I didn’t hesitate. I met ten amazing musicians from Syria, Egypt, Morocco, Palestine, and Sardinia at his school.
We jammed together, improvising on melodies rooted in Arab tradition. I stayed until the last minute and left with this incredible experience still echoing inside me.
Naseer and I are planning a major collaborative project, bringing musicians from all over the world together—hopefully debuting in Abu Dhabi soon.
Yes, absolutely. The night of my concert, an old friend I hadn’t seen in 30 years came to visit—Naseer Shamma, a world-renowned oud virtuoso. He lives in Abu Dhabi and runs a music school.
After the concert, he invited me over. Despite having a 2:00 AM flight, I didn’t hesitate. I met ten amazing musicians from Syria, Egypt, Morocco, Palestine, and Sardinia at his school.
We jammed together, improvising on melodies rooted in Arab tradition. I stayed until the last minute and left with this incredible experience still echoing inside me.
Naseer and I are planning a major collaborative project, bringing musicians from all over the world together—hopefully debuting in Abu Dhabi soon.
What are you taking away from this experience?
It was a long journey—from India to the Emirates. The contrast between the two, socially and emotionally, was striking. These contrasts spark emotions and ideas. I’m taking with me the desire to return to both places.
It was a long journey—from India to the Emirates. The contrast between the two, socially and emotionally, was striking. These contrasts spark emotions and ideas. I’m taking with me the desire to return to both places.
Are any upcoming solo performances in unique or symbolic locations?
Yes—I have a yearlong project starting this summer. I’ll perform solo concerts worldwide in remote or symbolic places: by the sea, in the mountains, in caves—sometimes with large audiences, sometimes alone. It will become a long video project—an immersive sound and visual journey.
If I could choose a dream location, I’d love to play solo in Abu Dhabi, by the sea, or inside the Louvre Museum, on that beautiful staircase that leads to the water.
Beyond that, I’ll continue touring with my projects—my quintets The Crossing and Atlantico, and with symphonic orchestras. I’ll play on Italian Republic Day in Oslo, then at Expo Osaka, then at Jirokichi in Tokyo, and before all that, in Mozambique with local musicians.
My music is always in motion.
If I could choose a dream location, I’d love to play solo in Abu Dhabi, by the sea, or inside the Louvre Museum, on that beautiful staircase that leads to the water.
Beyond that, I’ll continue touring with my projects—my quintets The Crossing and Atlantico, and with symphonic orchestras. I’ll play on Italian Republic Day in Oslo, then at Expo Osaka, then at Jirokichi in Tokyo, and before all that, in Mozambique with local musicians.
My music is always in motion.
Katya Marletta