A tu per tu con Massimo Triolo

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Il titolo della Sua opera evoca immediatamente una tensione sacrificale, un’offerta dolce ed, al tempo stesso, dolorosa. A Suo avviso, chi è il destinatario ultimo di questo miele immolato? Una divinità interiore, l’altro da Sé, o forse la stessa parola poetica che tutto consuma?

Il sacrificio in questione non è un vero sacrifico, ma una dichiarazione di pienezza d’essere nel segno del dono. Ho sempre pensato che si dovesse essere degli spendaccioni d’anima, in questo senso il miele è un suggello luminoso di elargizione, perfino di spreco; ed è indirizzato alla vita nella sua pienezza e urgenza.

Nel Suo versificare si avverte una continua oscillazione tra ebbrezza e rigore, come se il principio apollineo e quello dionisiaco danzassero in un equilibrio sempre minacciato. Quale dei due La domina mentre scrive, e quale invece soccombe?

Sicuramente il preponderante è quello dionisiaco legato all’ebbrezza e alla dismisura, al sublime inteso alla Burke, se si vuole. Ma ho imparato che una certa misura, uno stile più rasciutto possono venire incontro a ragioni di incisività.

La Sua poesia sembra emergere da una materia notturna, gravida di silenzi e bagliori interni. Come concepisce il ruolo del silenzio nella genesi poetica? È il miele, in fondo, ciò che resta quando il silenzio si scioglie in parola?

Il silenzio è una fucina creazionale, indubbiamente. Bisogna prima sospendere ogni  poiesi poetica per trovare in sé la ragione di qualcosa di nuovo; e il silenzio è un tramite, una feritoia su mondi possibili.

In molte Sue immagini si coglie una sensualità metafisica, una tensione erotica che non si abbandona mai alla pura carnalità, ma che tende piuttosto a sublimarsi. La poesia, per Lei, è anche una forma di ascesi amorosa?

La poesia è carnalità: si fa con ogni fibra di sé e non si risparmiano carne e sangue, anzi si offrono, qui davvero in sacrificio, a chiunque voglia raccogliere questa forma di consustanziazione.

Nel Sacrificio del miele si intravede un io lirico che non si confessa, ma si vela, si traveste, si sacrifica. È ancora possibile per Lei, oggi, parlare di poesia come luogo del mistero, della rivelazione che non si esibisce?

L’esibizione è a mio avviso sempre una forma deteriore dell’espressione. La poesia è indubbiamente anche arcano, una sorta di paesaggio misterico velato da nebbie, spesso di rovine, e sovente non del tutto attingibile dallo sguardo. La cosa che ha rilievo è cercare una direzione, una rotta da seguire orientandosi nei mondi e negli universi che si creano con i versi. Benché talvolta sia foriero di cose buone anche un sano smarrirsi.

L’archetipo dell’ape – implicito ma onnipresente – si affaccia nella Sua opera come figura del lavoro poetico: paziente, febbrile, solitario. Si riconosce in questa metafora? È l’ape o il fuco, o entrambe le cose, il poeta?

Il poeta è l’indiscernibile, il suo ruolo, a oggi, è del tutto superfluo e metafisico.

Lei compone spesso versi che sembrano cristalli di tempo, fulgori brevi e abissali. Come vive il rapporto tra la scrittura e il tempo? È per Lei la poesia una forma di eternità o piuttosto di estrema mortalità?

Questa è un’ottima domanda. Il tempo ha rilievo solo se lo gli si attribuisce. Io, dal mio canto, lo sospendo e dilato, lo contraggo e plasmo perché sia in carattere con la materia del mio poetare. Manipolare il tempo però non significa non avere un grande rispetto per questo a priori di ogni esperienza fattibile.

Si può leggere la Sua opera come una liturgia interiore, in cui il soggetto poetico diventa sacerdote del proprio abisso? Se così è, qual è il rito che si compie nel sacrificio del miele? Una comunione, una separazione, o entrambe?

I riti sono molti e reiterati. La ritualità è il luogo del sacro. E io penso piuttosto a un tempo circolare o messianico della rivelazione, in cui il rito si iscrive come ripetizione. Ma qui si tratta non tanto di ripetere l’uguale quanto l’identico.

Vi è, nei Suoi versi, una continua tensione tra purezza e contaminazione, come se il miele stesso portasse in sé il veleno sottile dell’eccesso. Che rapporto ha con la bellezza, Lei che ne canta anche la crudeltà intrinseca?

La bellezza ha qualcosa di crudele, indubbiamente, come del resto la gioventù e ogni altra cosa abbia solo ragione in se stessa. Ho raggiunto un’età in cui la familiarità con gli aspetti crudeli della vita è ormai assidua. Bisognerebbe capire cosa la crudeltà può offrire e non solo togliere o esasperare. Per mio conto, credo che tutte le esperienze siano possibile fonte di ispirazione… Crudele è ciò che non scende a patti, ciò che è vertiginosamente intatto e fine a sé: tale da scudisciare un’anima senza indulgere al perdono e probabilmente senza un corredo di ragioni. Qui causa e fine, o effetto, si rivelano puntiformi e sono entrambi assai poco ragionevoli.

Infine, Le chiedo: dopo aver offerto il miele, dopo averlo sacrificato – parola, amore, memoria – cosa resta del poeta? Un corpo svuotato? Un altare bruciato? O forse, al contrario, una nuova possibilità di fioritura?

Resta come una tristesse post coitale. Uno spleen indescrivibile che conduce a creare ancora e ancora. Il corpo della poesia è la “macchina morbida” di una dipendenza feroce presso l’espressione di sé.

Giusy Capone

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