Leggendo “La madre del libro”, uscito di recente per Raffaelli editore, qualcuno dirà che la poetica di Brullo risulta esopica, oscura nei nessi e nei simboli. Bisogna chiarire innanzitutto che essa è sorgiva e mai derivativa, e nello stile e nei temi, e soprattutto non vuole essere capita né giustificata – semmai partecipata. Qui non v’è una litania di ascendenze culturali e riferimenti colti, qui v’è l’invenzione pura e semplice, la messa in atto di rivelazioni e non di compendi. Poetica precisa come un compasso, che aderisce, simile a una benda bagnata, al cuore di una narrazione dello spirito e della sua tirannia, omettendo temi triti e mettendo in discussione armamentari classici solo per tornare a essere a suo modo classica senza maniera. Limpida e votata a un canto distintivo, si erge come lo scheletro dell’intero creato dalle falde sotterranee di un’anima sequestrata al mondo, resa nuda e issata alle guglie di una percezione del sacro che rifonda il discorso sull’essente. Gremita di simboli, non indulge al simbolismo, semmai estenua l’attenzione del lettore seminandone di simili a feritoie su mondi possibili e paesaggi di icastica possanza.
Ogni vita è un sentiero ma qui il sentiero non è solco, che semmai si assiste a un delirio di proliferazioni di significati disegnati da un arte combinatoria delle parole che esce dal calco dell’ovvio e del sancito come ordinario. Il tempo è sospeso se non revocato e il presente un diafano soffio che sparge pollini libertini di idee, suggestioni, rimandi.
Brullo sembra danzare quando scrive, sembra intraprendere le vie più impervie della parola per collocarla in una trama di dee e intuizioni che disegna araldi di un pensiero in movimento puro. Egli lambisce l’apparente assenza di epistemi certi, dritto sul ponte di una nave senza porto e su mari in tempesta; sposa l’esecrazione di ciò che è palmare, per spostare l’asse della sua poetica verso mondi adiacenti ma non così prossimi. La sua poesia è disegno, stile tonale, di un digradare noumenico, e assieme dimora del conflitto senza tempo tra luce e ombra: evocatrice di esiti suggestionali che evadono l’apodittico per abbracciare la visione allucinata e il sogno desto di una vita, o più esistenze, che non chiedono statuto fuori dalla propria centrica e ingiustificata urgenza; di un’identità, infine, che si fa territorio del possibile senza guarnire il possibile di vessilli inoppugnabili. Così i luoghi di questo poetare estremo, al limine dell’indiscernibile, non sono che luoghi d’assenza più che di presenza, in cui troneggia il silenzio di Dio, la voce obliqua dell’osservanza, e il tradimento solo apparente di essa, che la rifonda lungi da ciò che si fa legge e certezza, nella significanza prospettica di un diaframma poetico votato alla profondità.
Niente, invero, è certo in questi versi: tutto si fa alla luce abbacinante di una dinamo stellare di cenni e movenze che hanno significato solo se percepiti in movimento indefesso, insostituibile, con un’avanzata nudata e catafratta assieme, arresa alla bellezza quando essa chiama, ma anche belligerante in mille certami.
Brullo è seta e carta vetrata. Così l’amore, preso a specimen, ha la sua verità in spazi riposti, sentine di armi e volontà di scuoiare i cuori e consegnare la propria semenza a plutonici corvi. Nutrire “l’infinito cielo con nuove foglie” è essere “stanchi dei re” di chi ammaestra l’anima, l’irretisce nell’opaco, e desidera sventare l’altrimenti auspicabile eccedere di sé e di un’anima votata non alla lagnanza ma alla creazione ex nihilo, al gesto massimamente diafano e concreto di una dissidenza presso la penuria d’essere, che getta ami negli abissi dell’abbondanza. Se essere prende le mosse dall’incunabolo di una assenza d’essere, per mettere in gioco se stessi senza legge scritta e sancita, facendo salire a rilievo un fondale bianco per mezzo di reticoli di segni, i segni di Brullo fanno venire in luce architetture inedite, vie devianti, medicamentosi balsami per l’angoscia dell’esistere, calando in esso un senso che non si stringe in pugno, perché è sentore e idea che presidiano l’ombra e ubiracano senza fisionomia concreta. La parola, dunque, non innerva che le pagine di una natura che deve essere scritta e riscritta e sfugge, nel sigillo del sacro, le litanie di cause e effetti, dimostrazioni e modelli di interpretazione propri di un pensiero positivo. Essa è prodigio e epifania, via messianica e Kairòs, figlia di un tempo non neutro e gremito di verità mai univoche, popolato di rivelazioni fuori portata a menti che indagano in luogo dell’accogliere, a coscienze categoriche con i loro tribunali della Ragione. Questa poesia è indagine solo nel senso non ordinario di testimonianza e creazione nel medesimo gesto poetico, campo sgombro da soluzioni perifrastiche in cerca di apodissi: essa non omette ciò che è sotterraneo e carsico, dissolto, fuori fuoco, e non cerca di spiegare in chiave logica la sillabica forma dell’essere al mondo, semmai la riplasma alla luce di una sensibilità ieratica e sola al mondo: voce unica e virginale che mette la poesia a testimone di una visuale non ordinaria che disloca il senso costantemente, sorprende e abbaglia, si fa carico sia della natura agnina di ogni creatura sia del sua terribile, belluina sete di dominio e certezza che si scontra con l’assoluto. In questo cammino poetico non valgono né stelle, né bussola, né astrolabio: ma esso è da guida e suggerimento per chi non tradisce la complessità di ciò che non si dà immediatamente a uno sguardo, la quale necessita di non essere tradita nelle proprie sottigliezze, e di non fare apostasia di sé e del canto aurorale e forse ingenito, arcano e sfuggente, non del parvente, ma di ciò che è forma di un visibile interdetto a soluzioni apocrife e vicarie di un veridico senso, breviari etici e esistenziali. Ecco la chiave del sacro: ciò che non si può dire, ciò che diventa espresso nelle intercapedini di una creazione artistica che lo onora tendendogli agguati. E Brullo ne compie di formidabili.
Massimo Triolo