La tragica fine di Pier Paolo Pasolini è un capitolo della storia noto al pubblico italiano. Ma allo spettatore tedesco molti risvolti e l’intricata vicenda del suo brutale assassinio sono praticamente ignoti o poco conosciuti. Quale soggetto più appropriato, dunque, per una messinscena teatrale celebrativa in Germania in occasione del 50° anniversario della morte?
Roberto Ciulli, fondatore del Theater an der Ruhr nella cittadina di Mülheim an der Ruhr a pochi chilometri da quella Duisburg famosa per il massacro firmato dalla ‘ndrangheta, ha coraggiosamente affrontato l’argomento “Pasolini” resistendo però alla tentazione di uno spettacolo sensazionale. È lui stesso quale voce narrante a pronunciare le prime parole della pièce. Si presenta come un Sofocle moderno portatore del messaggio pasoliniano rivolgendosi al pubblico, quasi a suggerire che la società moderna non è più quella del mondo classico: le manca il mito, il sacro, la profondità, e rischia perciò di disumanizzarsi.
Dopo questo prologo, la drammaturgia assume le forme Un attore narra, quasi come una cronaca giornalistica, la dinamica dell’omicidio e il ritrovamento del cadavere martoriato. In questo modo, lo spettatore è costretto ad attivare la propria immaginazione e a vivere gli eventi in maniera più intensa, diventandone egli stesso partecipe. Ciulli si affida alla potenza della parola. Con la stessa sobrietà vengono letti stralci di una lettera di Oriana Fallaci all’amico scomparso: parole che gelano il sangue e restituiscono tutta la gravità del delitto, e l’enorme perdita di uno dei maggiori poeti del XX secolo.
La seconda parte si apre con le poesie di Pasolini. Ciulli qui da forma scenica al cosmo interiore del Poeta, alle sue influenze, alla sua visione del mondo, come se tutto fosse condensato in una partitura musicale.
Attraverso le poesie, il pubblico viene a conoscenza degli opposti inconciliabili che sembrano definire la realtà di Pasolini. Per Pasolini, la madre è al tempo stesso anima e maledizione. Ciulli lo suggerisce mettendo in scena Eva Mattes, celebre in Germania, nel ruolo della madre di Pasolini, mentre aiuta l’attrice – che in quella scena interpreta Pasolini – a spogliarsi. In sottofondo si percepisce una tensione erotica, sottile ma presente. In altre poesie, è la purezza stessa a causare la dannazione divina oppure Pasolini si rappresenta come un morto tra i vivi, capace di sopportare la luce pura solo se è priva di speranza. Anche nella parte poetica, gli interpreti trovano un tono accuratamente equilibrato e adeguato.
La preparazione di questa produzione – intitolata Io so – Mitteilungen an die Zukunft (Messaggi per il futuro) – ha richiesto due anni di ricerche. Il materiale pasoliniano è vastissimo, ma la selezione di testi e documenti, curata dal team drammaturgico composto da Helmut Schäfer e Paola Barbon, risulta efficace. Le traduzioni dal testo originale italiano, firmate in larga parte dalla stessa Barbon, mantengono un’alta fedeltà stilistica e concettuale.
Pasolini amava insegnare: prima a Casarsa, sua città natale, poi a Roma, fino a diventare, idealmente, il “maestro” dell’Italia intera. È dunque perfettamente coerente che Ciulli scelga un’impostazione didascalica – nel senso più nobile del termine. Anche chi non conosce a fondo l’autore come molti spettatori tedeschi percepisce l’enorme spessore della sua opera, la sua cultura, il suo esprit, la sua capacità di analisi sociale ancora attuale: dalla denuncia del consumismo come nuova religione, al pericolo dell’omologazione massmediatica, fino alla questione migratoria.
Con tocchi di ironia, vengono evocati elementi tratti dai suoi film (come un balletto da Uccellacci e uccellini), dialoghi con il compagno Ninetto Davoli, brani dal testo pedagogico Genariello, e naturalmente il calcio, grande passione di Pasolini.
Un ruolo centrale è riservato alle scenografie e ai costumi, ispirati ai personaggi di film come Accattone e Decameron. La scenografa Elisabeth Strauss ne reinterpreta i tratti distintivi con eleganza, senza mai cadere nella riproduzione mimetica. Anche gli oggetti scenici, ridotti all’essenziale, sono tuttavia ricchi di evocazioni. Sei sedie sul palco: solo cinque occupate. La sesta, all’estrema sinistra, resta vuota. È ormai noto che furono coinvolti almeno cinque uomini nell’omicidio di Pasolini, e che Pino Pelosi – forse addirittura innocente – non agì da solo. Gli attori, con i loro costumi, incarnano un campione della società: Pasolini aveva nemici in ogni ceto. La sedia vuota allude, forse, a un mandante sconosciuto, o forse a una verità ancora sepolta.
Sul fondo, un’abside coperta da un’impalcatura e un telo sul quale viene proiettata, a un certo punto, l’immagine della donna che ritrovò il corpo sfigurato del poeta e che all’inizio lo scambiò per un cumulo di rifiuti. Ed è in questa situazione particolare che lo spettatore nota il lenzuolo e i due mattoni forati che paiono occhi: la scena richiama un corpo abbandonato. Il lenzuolo diventa una reliquia, un sudario. Il simbolo di Pasolini.
Nel corso della rappresentazione vengono portati in scena dei tavoli, che trasformano lo spazio in una sorta di aula scolastica, ospitata in una chiesa. Verso la fine, l’abside si scopre: appaiono affreschi, e si comprende che l’impalcatura serviva per restaurarli. Anche questo è un riferimento biografico: Pasolini, insieme ai suoi studenti, puliva gli affreschi delle chiesette friulane. Un gesto pedagogico e simbolico al tempo stesso: restituire cultura, storia, sacralità a un mondo sempre più alienato.
A un certo punto, un attore-angelo cala dall’alto, come a voler richiamare La Ricotta. Risveglia gli altri interpreti addormentati, che a turno portano sulla scena un nuovo testo pasoliniano. Infine, l’angelo resta solo, ruota su sé stesso come un derviscio: immagine impressionante del sacro nella sua irriducibile solitudine.
Il flusso delle idee di Ciulli non si esaurisce: Pasolini fu anche pittore e storico dell’arte, e spesso le sue inquadrature cinematografiche citano celebri dipinti. E così l’atto finale rievoca L’Ultima Cena di Leonardo. Ciulli non dimentica la cifra fondamentale di Pasolini: la provocazione. Anzi, la rilancia.
Pasolini scrisse anche canzoni: una di esse dà voce a una prostituta che rende omaggio a Gesù. Ora in scena, la madre dell’autore, in costume tradizionale friulano – canta questo brano, per poi accennare, nei panni di una prostituta, ad atti erotici con gli altri attori. Anche in Mamma Roma, una madre si prostituisce. Eppure, sarebbe impensabile che Pasolini raffigurasse così sua madre, da lui idealizzata. Ciulli lo fa per provocare? No. Lo fa per incarnare fino in fondo il pensiero pasoliniano. Ne assume il gesto artistico, lo porta alle estreme conseguenze, lo rende atto poetico e filosofico. Il sacro non risiede mai nella conformità morale, ma nell’autenticità umana: la prostituta stringe il lenzuolo tra le braccia e si trasfigura in Santa – e Pasolini in Cristo. È infine Maria che piange suo figlio o, ripensando al prologo, è il mondo intero che piange ancora la perdita di uno dei suoi più grandi poeti e critici?
Il pubblico della prima è entusiasta. Applausi prolungati, mani e piedi che battono all’unisono. Una spettatrice, alla fine, trova le parole più giuste: “Dovrò riflettere ancora molto.” Cosa può desiderare di più un teatrante, se non che lo spettacolo continui a vivere nella coscienza di chi lo ha visto? In definitiva lo spettacolo è così denso da meritare più visioni. Come un grande racconto, non basta ascoltarlo una sola volta: va vissuto, esplorato, riattraversato.
Eugenia Fabrizi