L’Andelchi di Manzoni, grande e difficile drammaturgia lirica del genio manzoniano, ha sempre posto, almeno agli occhi di chi scrive, una serie di quesiti. Da autore teatrale non sono mai riuscito a concepire una messinscena moderna di un’opera che ritenevo, erroneamente da parte mia, ridondante, retorica, improponibile allo spettatore dei nostri giorni. Ebbene, Vincenzo Zingaro con questo allestimento mi ha fatto ricredere. Il regista ha infatti usato la musicalità battente come un tamburo della lingua arcaica, protodannunziana e postdantesca per usare due eufemismi, per svilupparla in chiave concertistica. Il ritmo prende dunque il sopravvento sulla parola, il suono sul senso, al punto che lo spettacolo-concerto, grazie alle musiche del Maestro Zappalorto potentemente inserite nella drammaturgia e da essa ispirate, si espande e rimbalza come un’eco tra diverse epoche storiche conservando tutta la sua drammaticità. Mentre l’ochestra dal Golfo Mistico sviluppa temi che si connettono ai versi come algoritmi alle formule, ecco al centro della scena, come un Dio furibondo, il percussionista che fa rimbombare il senso nella mente e nel petto dello spettatore.
La lingua usata, anzi rielaborata da Manzoni sul modello della tragedia alfieriana (consiglio un bel saggio di Alice Costa in Academia.edu, Tracce alfieriane nelle tragedie di Manzoni), contiene ovviamente asperità non indifferenti per l’orecchio poco allenato alle poetiche del tempo. Un elenco dei termini in disuso o desueti come pugna, brando, indarno e via dicendo, sarebbe lungo e anche inutile. Poiché la scelta di Zingaro è di mantenere la struttura linguistica di Manzoni nel rispetto del capolavoro, ma al tempo stesso di renderla accessibile attraverso i rimbalzi di note e percussioni che esprimono la semantica del testo attraverso un meccanismo di trasmissione sensoriale.
Naturalmente le voci sono fondamentali in questo contesto, ripeto non solo per la comunicazione semantica, ma anche e soprattutto per il timbro e la musicalità tra cui le suggestive “sonorità” vocali di Annalena Lombardi nel ruolo di Ermengarda. Proprio sulla voce dunque verte il punto di forza dello spettacolo-concerto di Zingaro che ha scelto per il ruolo di Desiderio una delle più belle e profonde voci del tetro contemporaneo: Giuseppe Pambieri, un attore, un interprete drammatico tra gli ultimi grandi con Mariano Rigillo della sua generazione e di quella immediatamente precedente – mi riferisco a Foà, Herlitzka, Scaccia, Mauri, Bosetti, Albertazzi e altri. La lingua originale della tragedia manzoniana resiste allora proprio in virtù di una potente forze evocativa, come se provenisse dall’oltretomba, da un passato non polveroso e obsoleto ma fortemente attuale. Ed è la voce appunto, anche con qualche accenno necessario di declamazione lirica in contrappunto con l’edizione intimistica e allucinata di Carmelo Bene, ad imporne l’attualità come a dire allo spettatore: attento qui si sta parlando di te e per fartelo capire te lo dico forte e chiaro.
In che senso si parla di me spettatore italiano? Qui entra in gioco la scelta “politica” che ha mosso Zingaro, anch’egli efficace interprete di Adelchi, il figlio dal tragico destino del re longobardo Desiderio, a scommettere su l’opera manzoniana. Infatti Adelchi vorrebbe la pace ma è costretto alla guerra dall’ira del padre, mosso da propositi di vendetta per il ripudio da parte di Carlo Magno della figlia Ermengarda. Italia terra di conquista e di dominazioni, percossa da invasioni e trafitta da guerre di dominio straniero, un popolo quello italiano che chiede pace e riceve sangue e sacrifici, morti in battaglia piuttosto che braccia per coltivare i campi. Un insegnamento per quello che stiamo rischiando in Italia e nel mondo.
Enrico Bernard