Attila risveglia l’amor di patria

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Un Verdi “minore” nel cartellone della Fenice di fine di stagione, con una nuova produzione di Attila, opera che sul palcoscenico lagunare gode di grande fortuna, rappresentata in cinque edizioni dal 1975 a oggi, portata in tournèe in Giappone. Attila, dopo la riscoperta degli anni ’50, ha trovato forte visibilità negli ultimi quarant’anni grazie a figure carismatiche di basso come Nicolai Ghiaurov e Samuel Ramey. Per Giuseppe Verdi è la nona partitura, composta in quello che lui stesso definì “anni di galera”, ed ebbe la prima rappresentazione proprio alla Fenice nel 1846, con buon successo. Il musicista di Busseto, con questa partitura, intraprende una maturazione creativa affinando al tempo stesso lo spiccato senso teatrale: l’ambientazione storica, il forte impatto spettacolare, unito al fascino di forti personalità protagonistiche caratterizzate da uno scavo psicologico, garantirono all’opera una buona fortuna per tutto l’Ottocento. Erano gli anni dei moti risorgimentali e l’opera fu adottata dai patrioti per i sottintesi politici celati nel libretto di Solera. Libretto, inutile negarlo, che a volerlo ben leggere, dovrebbe sferzare molte coscienze, oggi eticamente intorpidite e assopite. Un esempio incisivo per tutti: Ezio, condottiero romano cerca di mercanteggiare con l’invasore la spartizione delle terre: avrai tu l’universo, resti l’Italia a me. Attila (severo): Dove l’eroe più valido è traditor, spergiuro, ivi perduto è il popolo…ivi impotente è Dio…Alla base del lavoro giovanile verdiano c’è Attila, König der Hunnen (Attila, re degli Unni) di Zacharias Werner, dramma romantico di spiccata matrice e concezione germanica: già molto operistico di suo, anche se si sarebbe pensato un soggetto per Wagner più che per la fulminante sintesi italiana del compositore nostro. Verdi, da quel genio teatrale che è, lo adottò immediatamente, invitando il librettista Piave ad approfondire il periodo storico in cui si situa la vicenda. Lo consiglia inoltre di esaminare dettagliatamente i “cori” del dramma che giudica formidabili e, con grande intelligenza, di leggere quella Madame De Staël che si era eretta a paladina e difensore del romanticismo tedesco in cui si esaltavano le virtù dell’onestà e semplicità delle nobili popolazioni primitive del Nord (anche se un po’ sanguinarie). Il Maestro, dopo il clamoroso entusiasmo suscitato con Nabucco, raccolto un riscontro di stima ne I due Foscari ma soprattutto il fiasco di Alzira, era alla ricerca  di un successo sicuro. Scritta tra Ernani e il primo Macbeth, Attila era destinata alla Fenice, per la Stagione 1845-46. Cambia il librettista, che diventa Temistocle Solera; attento a fiutare il clima politico che ferve (ed esploderà nella rivoluzione del 1848), alimenta sagacemente la storia con personaggi cari al patriottismo italiano. Verdi rischiò di non terminare l’opera per gravi problemi di salute: tutto il mondo musicale, italiano ed estero rimase in apprensione, spaventato di perdere (come avvenne con Bellini) un compositore di tal fatta. Così non fu. La prima dell’opera fu caratterizzata da un’accoglienza tiepida, di pubblico e critica, ma s’impose nelle repliche. Nessun’altra opera sapeva suscitare tanto entusiasmo quando si arrivava alla famosa frase “Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me”. Un’opera sanguigna, tutta muscoli e nervi come si addice al soggetto, ed è così che la rende il Direttore Sebastiano Rolli, non risparmiandosi nel profondere un’energia primigenia nella partitura del giovane Verdi, offrendo una sanguigna interpretazione. Predilige suoni ruvidi e potenti, altisonanti e un po’ stentorei, lasciando da parte sfumature se non per i momenti lirici. Esalta, la marzialità di alcune pagine, rendendo il personaggio di Attila il più credibile psicologicamente dei personaggi, barbaro e grezzo oppressore sì, ma di uno spessore umano che agli altri manca. Tumultuante l’Orchestra del Teatro la Fenice in travolgente resa, csi fa struggente nel finale primo esaltando la potenza espressiva di Verdi. Impossibile non rimanerne soggiogati. Ottimo il Coro dal canto avvolgente ed evocativo diretto da Alfonso Caiani. Protagonista il basso Michele Pertusi, Attila dall’imponente e statuaria presenza scenica, si fa valere per il fraseggio penetrante: Vanitosi l’incisività infusa nel duetto (meno partecipe il baritono), Mentre gonfiarsi l’anima dagli accenti evocativi e terrorizzati, già profetici, agghiacciandosi nel rimembrare il sogno; sfoggiando piena baldanza in Oltre quel limite. In No!… non è sogno pregnanza impressa alla parola e toccante infine nella morte conclusiva. Da apprezzare l’intelligente impiego dei mezzi di voce attuali, più che per il magnetismo vocale e l’imponenza; la consistenza della voce, pur conservando ancora un discreto velluto, è andata impoverendosi. Si sentono inoltre ondeggiamenti e non sempre saldi gli estremi acuti. Nell’impervia parte di Odabella Anastasia Bartoli, soprano sempre più in ascesa, dall’importante strumento vocale che sa piegare con intelligenza in variegato repertorio. Per lei non ci sono difficoltà vocali di sorta, dominando agilmente le difficoltà della parte, con coloratura sgranata e di sempre approfondito fraseggio. Slancia e tuoneggia con la voce nell’aria di sortita Allor che i forti corrono piegandola poi con facilità in morbido contrasto. Impavida attacca gli acuti, squillantissimi, a voce piena, con generosità che non conosce risparmio, dando un gusto orgiastico nel buttarvisi anima e corpo. Anche i bassi suonano ben centrati. Oh! Nel fuggente nuvolo ha toccanti accenti, impreziositi da smorzature che suscitano l’immagine evocata, screziature espressive, che sa imprimere anche a piena voce. Cessa, deh, cessa…dal fremente rimorso e il seguente Te sol, te sol quest’anima eseguita con accenti lancinanti. A Foresto presta la voce il tenore Antonio Poli, generoso vocalmente, dotato di fulminante squillo ma stentoreo nel fraseggio; in Ella in poter del barbaro sposa l’enfasi, ma sbianca nelle mezzevoci. Sempre il sospir dell’esule e cara Patria è un po’ monocorde, spezzando le frasi senza gran “legato”; impetuoso in Si quell’io son ravviasami mostra accenti imperiosi ma lo sdegno è tutto in superficie. Oh, t’inebria nell’amplesso tenta di essere passionale nel duetto, ma non riesce convincente come il soprano. Che non avrebbe il misero si odono alfine accenti partecipi, ma sempre basando il canto sulla potenza del suono. Vladimir Stoyanov Ezio di timbro non singolare e vagamente opaco, di voce minata da lievi ondeggiamenti, imprecisi gli acuti. S’impegna a fraseggiare, ma con risultati generici, in Tardo per gli anni e tremulo, giungendo al meglio in Dagli immortali vertici pur non rendendo l’aura del brano. E’ gettata la mia sorte è caratterizzata da generica enfasi. Si disimpegna, senza spicco, nella parte di opportunista e traditore. Undino senza gran corpo di voce di Andrea Schifaudo; buon timbro di basso profondo per Leone di Francesco Milanese. Nuova produzione del Teatro La Fenice, affidata a Leo Muscato, dalla regia equilibrata con alcuni momenti d’effetto. La sua concezione oscilla tra scene di rozza barbarie e un occhio al misticismo, un po’ di maniera, che infiammò i nostri antenati all’ascolto di quest’opera, Impianto fisso di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino. Calorosissima accoglienza finale per la compagnia di canto e il direttore. Al Teatro La Fenice di Venezia.

gF. Previtali Rosti

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