Dawson, León-Lightfoot ed Ekman: trittico di danza contemporanea al Teatro dell’Opera di Roma

Data:

Dal 20 al 25 maggio 2025, il palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma si è aperto  a tre visioni della danza contemporanea firmate da alcuni tra i più influenti coreografi della scena internazionale. Sotto la guida artistica di Eleonora Abbagnato, è andato in scena  un trittico d’autore che fonde sarcasmo teatrale, potenza emotiva e poesia astratta: un confronto diretto tra mondi coreografici distinti ma complementari.

Protagonisti della serata: Cacti di Alexander Ekman, affilata riflessione ironica sul ruolo dell’arte; Subject to Change di Sol León e Paul Lightfoot, viaggio interiore tra memoria e trasformazione; Four Last Songs di David Dawson, un’elegia danzata sul senso del tempo e della fine.

A dare volto e corpo a questi capolavori del balletto contemporaneo ritroviamo i nomi delle étoiles Rebecca Bianchi, Susanna Salvi e Alessio Rezza, affiancati dai primi ballerini Federica Maine, Marianna Suriano e Michele Satriano, insieme ai solisti e all’intero Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma.

Tra gli interpreti spicca la partecipazione straordinaria di Alice Mariani, prima ballerina del Teatro alla Scala,  in scena in Four Last Songs accanto alla voce del soprano Madeleine Pierard.

Il primo tempo della serata si apre con Cacti di Alexander Ekman.

Creato dal coreografo svedese nel 2010, Cacti è un fulmine ironico nel panorama del teatro-danza contemporaneo: una satira brillante e intelligente sulle pretese dell’arte “seria”, che riesce a essere allo stesso tempo spiazzante, fisica e profondamente teatrale. In questa pièce, Ekman smonta con ferocia e umorismo il formalismo dell’arte coreografica, prendendo di mira sia il pubblico che i danzatori stessi, complici di un sistema che spesso si prende troppo sul serio.

La scena si apre su una griglia di pedane bianche: sedici interpreti, vestiti con semplici pantaloni neri, iniziano una danza fatta di gesti spezzati, sospensioni e sincronismi. Il ritmo è serrato, il corpo è percussivo, il movimento si intreccia con il suono in un dialogo impeccabile tra danza e musica dal vivo (archi ed effetti sonori). È una coreografia “percussiva”, nel senso letterale e concettuale: i corpi sono strumenti, battuti, manipolati, osservati.

Ma ciò che rende Cacti unico è probabilmente il suo strato metateatrale.

Una voce narrante — ironica a tratti assurda — guida lo spettatore in una finta lettura colta dell’opera, spingendolo a chiedersi: cosa stiamo davvero guardando? Cosa rende un’opera “arte”? E quanto è ridicola, a volte, la sovrainterpretazione?

Il cactus — oggetto simbolico e assurdo, presente letteralmente in scena — diventa totem ironico dell’opera d’arte: apparentemente inutile ma trattato con la massima reverenza. E proprio questa tensione tra contenuto e cornice è il cuore del pezzo: Ekman si diverte a rompere la quarta parete, giocando  con i cliché del mondo della danza e smascherando le convenzioni con sorriso beffardo.È un’opera che diverte chi ama la danza, ma che colpisce anche chi ne è scettico, proprio perché ne sovverte i codici con intelligenza e ritmo scenico.

Dopo una breve chiusura sipario lo spettacolo prosegue  con Subject to Change, una coreografia che si fa carne viva, tensione psichica, ricordo di dolore e liberazione. Creata da Sol León e Paul Lightfoot per il Nederlands Dans Theater nel 2003, questa pièce è un esempio potente della loro poetica viscerale, in cui gesto e psiche si fondono in un linguaggio coreografico intimo, al confine tra impulso e controllo.

La scena è dominata da un enorme tappeto rosso che viene continuamente srotolato, piegato, tirato, calpestato: simbolo mobile di un terreno emotivo instabile, di una casa mentale che si costruisce e si sgretola. I sei danzatori attraversano lo spazio con una danza carica di pathos e fragilità. I corpi si avvolgono, si sfuggono, si sostengono, in un flusso narrativo che si nutre di dettagli.

Sullo sfondo, le arie di Schubert – intense, struggenti, liriche – creano un contrasto drammatico con il movimento a tratti quasi violento. La musica non è accompagnamento, ma canto dell’anima: dove le note salgono, il corpo cade; dove la voce accarezza, la coreografia morde.

In Subject to Change tutto è provvisorio: gli affetti, le certezze, la materia stessa della scena. L’atto danzato diventa  un grido muto, una lotta per restare, per lasciare un segno nel tempo che tutto corrode.

León e Lightfoot regalano un’opera intensa, lirica e cruda allo stesso tempo, quasi una confessione che non ha bisogno di  parole, una poesia danzata sull’impermanenza. Un inno struggente all’amore, al dolore ed al continuo cambiamento delle cose.

La serata si conclude con Four Last Songs  di David Dawson, un’opera eterea e spirituale, creata sulle omonime composizioni di Richard Strauss: un canto d’addio alla vita, dove danza e musica si intrecciano in un linguaggio che trascende il tempo. La pièce si sviluppa come un requiem danzato, ma senza mai cadere nella cupezza: è piuttosto un’esplorazione luminosa e poetica del concetto di fine, un omaggio alla bellezza dell’esistenza nel suo dissolversi.

I danzatori del corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, sfoggiano in questa performance tutta la loro forte tecnica ed estetica neoclassica, con corpi nudi  quasi scultorei, muovendosi in modo fluido come il canto, elevando i propri corpi in sospensione lirica.

Le linee coreografiche sono raffinatissime e richiedono grande controllo fisico. La  danza è trasparente ma complessa, richiede una precisione tecnica assoluta, mista ad una consapevolezza interiore intensa: ogni gesto è carico di significato, ogni silenzio coreografico è profondo.

I danzatori incarnano figure archetipiche sospese tra cielo e terra, su uno sfondo di nuvole grigie in videoproiezione, sembrano attraversare l’ultima soglia non con paura, ma con dolcezza e accettazione. Non c’è dramma  ma intensità  che commuove proprio nella sua delicatezza.

La musica di Strauss offre un paesaggio sonoro sublime, intriso di malinconia e serenità. Dawson probabilmente si abbandona completamente a questa musica, costruendo una coreografia che respira all’unisono con il canto lirico: ogni nota nasce da un movimento, ogni frase musicale trova eco nei passi a due, nelle  torsioni, negli sguardi tra i ballerini.

Concludendo, Four Last Songs è una meditazione danzata sul distacco magistralmente interpretata dai tersicorei del balletto romano, una poesia visiva, che celebra l’ultima parte del viaggio dell’esistenza, lasciando lo spettatore con un senso di quiete luminosa e di accettazione.

Andrea Arionte

Seguici

11,409FansMi Piace

Condividi post:

spot_imgspot_img

I più letti

Potrebbero piacerti
Correlati