“Nel tango, come in teatro, è fondamentale sentire l’altro. Entrambi mi hanno insegnato ad affidarmi. Se non ti affidi a chi ti guida, non balli”.
A dirlo è la voce di Luisa Stagni, attrice, scrittrice, regista e insegnante milanese, che dal 1974 ha iniziato la sua storia d’amore con il teatro che la ha portata sui palcoscenici di tutta Italia. Non servono molti minuti per intuire la sua capacità di trasformare ogni frammento dell’esistenza in materia viva per la sua arte. Anche quando la cecità ha iniziato a farsi strada nei suoi occhi verdi, Luisa non ha distolto lo sguardo: ha continuanto a recitare, con e su quella nuova presenza, riscoprendo la sua voce più profonda e più vera. La stessa voce che ha condiviso con noi nel corso di questa intervista, in cui ha raccontato di sé e della performance “Guerriera in nome di…”, che porterà in scena sabato 7 giugno, al Festival “Attraversamenti”, organizzato da Teatri di Pietra.
Com’era il mondo del teatro milanese in cui si è inserita negli anni ‘70?
Nel ‘74 da insegnante di educazione artistica nelle scuole medie, sono entrata per la prima volta in un centro sociale di Milano. Era una palazzina occupata, all’interno della quale si facevano tante attività culturali di prestigio, con personaggi meravigliosi. Mauro Pagani insegnava violino, Demetrio Stratos voce, insomma eravamo in mani preziose. Dunque al centro sociale Santa Marta ho cominciato a studiare teatro. Io vengo dal Terzo Teatro: il teatro di Jerzy Grotowski, di Eugenio Barba; un teatro di strada in cui si utilizza molto il corpo per spettacoli, parate, installazioni architettoniche e fisiche. In questo tipo di teatro c’è uno scambio tra gli attori ed il pubblico, che va al di là della parola stessa e della comprensione linguistica. Ad esempio, puoi andare in Africa e scambiare il tuo lavoro con la danza tribale che il luogo ti propone, senza parole, ma con questa meravigliosa comprensione dei movimenti. È un teatro difficile, severo, austero, che pretende dedizione, preparazione fisica e mentale.
In che modo l’esperienza da attrice ha plasmato il suo modo di scrivere e pensare il teatro?
Ho studiato molto anche per arrivare a scrivere per il teatro ma quando impari dai grandi maestri a decodificare la struttura di una drammaturgia, a comprenderla e a capirne il percorso, dopo è tutto più semplice. A volte mi ritrovo a recitare mentre scrivo. Il pensiero deve risultare dicibile e credo per farlo sia privilegiato chi è anche attore, rispetto a chi scrive e basta.
Parliamo di quella che lei stessa chiama “realtà aumentata”. Come è cambiato nel tempo il suo modo di lavorare in scena e in aula, da quando ha iniziato a perdere la vista?
Quando sei in scena sei sottoposto ad un giudizio che non è facile da accantonare per chi recita. Devi concentrarti sul tuo pesonaggio, nella relazione con lo spazio e con gli altri. Ma anche nel pieno della concentrazione, c’è una parte di te che è condizionata dalla percezione esterna e dal giudizio altrui.
Sarebbe bello a volte riuscire a dimenticare sé stessi
Sarebbe bellissimo dimenticarsi totalmente di sé stessi e diventare l’altro: ciò che si sta interpretando in scena. La cecità mi ha dato la meravigliosa opportunità di non vedere chi ho davanti. Il mito dell’immagine crolla, non te ne importa più niente. Ti importa del contenuto, che le cose arrivino. Ora mi sento molto più libera quando sono in scena. Non sento più questo obbligo di far bene. Il pubblico non lo vedo ma lo sento, sento la sua energia che mi arriva forte. Riguardo a l’insegnamento, ho un’assistente che si occupa della parte visiva. Ma per quanto riguarda la parte creativa e recitativa, io avverto di più di prima la qualità e la difficoltà che può avere un allievo. Dall’ascolto, capisco se un attore ha problemi di respirazione, di ansia, dove sta irrigidendo il corpo, come sta ponendo il collo. Quindi non mi sento in sottrazione, ma mi sento in addizione.
Qual è stato il suo percorso con il coreografo Aurelio Gatti e con Teatri di Pietra?
Nell’85, a Roma, ho incontrato il Maestro Aurelio Gatti, a cui devo molto. Grazie a lui mi sono avvicinata al teatro classico, entrando nella compagnia MDA (Mimo Danza Alternativa), caratterizzata dall’unione di teatro, danza e recitazione. Con lui ho la certezza di lavorare in luoghi straordinari. Teatri di Pietra, di cui Aurelio è il direttore artistico, è uno dei più importanti progetti di valorizzazione dei teatri antichi. Io ho uno studio d’arte alle spalle e li riconosco molti dei siti archeologici e spazi monumentali che ospitano gli spettacoli di Teatri di Pietra; me li ricordo e tornarci a lavorare è una magia per me. A volte sono anche posti difficili. Ricordo ad esempio in Sicilia, a Selinunte, dove i ballerini ballavano tra le piccole spine nate tra le pietre. Come potrei descrivere la bellezza di andare in scena a Roma, davanti al Tempio di Giove? Credo che questi spazi debbano essere valorizzati e rispettati non perché le persone ci passino con patatine e cocacola in mano, che poi lasciano in un angolo, ma affinché li vivano come luoghi che riflettono la cultura.
Parliamo dell’estratto del suo ultimo spettacolo “Guerriere in nome di…” che porterà in scena ad “Attraversamenti”. Dal momento che il tema principale è la guerra, vorrei che riflettesse su questa mia personale riflessione: l’orrore della guerra sembra spesso una cosa lontana, ma ciò che la produce – il potere, la propaganda, la paura – ci sta più vicino di quanto pensiamo e lo possiamo riconoscere nelle voci, nei gesti, nelle parole che circolano anche lontano dal fronte.
Il contenuto del mio spettacolo è proprio questo. Il testo è nato circa quattro anni fa su un mio primo stimolo: il confronto tra Giovanna D’Arco e queste meravigliose donne curde che combattono da vere e proprie guerriere. Volevo approfondire le motivazioni per cui una donna si trova a combattere. Mentre scrivevo ho capito che mi interessava fare un discorso generale ancora più forte e riconducibile ai giorni nostri. Ho quindi inserito la figura di una madre che riceve uno zainetto della figlia morta che è andata a combattere sulle montagne, all’interno del quale c’è un libro di chimica e un libro su Giovanna D’Arco. Le opinioni della figlia verso Giovanna D’Arco sono dunque un contrasto.
C’è anche la figura di una giornalista nel suo spettacolo, a cosa è assimilata?
È una figura emblematica perché è la “Dea della discordia”, dell’odio, della guerra, ma una guerra dentro sè stessi. Le sue sono denunce, accuse. Accusa l’uomo di non saper fare a meno di creare la guerra.
Finché ci sarà la guerra nei nostri letti, ci sarà la guerra nel mondo.
Mi riferisco proprio alla guerra che si fa nel quotidiano, con il vicino di casa, in famiglia, tra fidanzati, tra colleghi di lavoro. L’istinto è di calpestare l’altro per potere o sopraffazione e c’è chi lo tiene a bada e chi no.
Che realtà emerge dagli incontri che vive nel suo ruolo di volontaria e insegnante nel sociale?
Quando non sono in teatro sono in strada con l’associazione APS “Ponti congiunti” con cui facciamo letteratura, poesia, musica, teatro e tanto altro. Grazie a questo rapporto con il sociale, capisco cosa accade dentro le persone, io ho una specie di termometro della situazione che si sta vivendo e questo elemento entra nelle mie scritture. In questo periodo c’è una grande mancanza di concentrazione, le persone si distraggono molto facilmente e non se la sentono di impegnarsi troppo. Non vogliono una presenza costante che richieda loro di metterci qualcosa in più, come se questo qualcosa in più lo tenessero prigioniero dentro di sé. C’è una forte situazione di instabilità. I ragazzi sono sempre più concentrati su l’esteriorità. Io nel frattempo tra un lavoro e l’altro, continuo a tenermi in allenamento: sto ristudiando la Divina Commedia.
Nel “Paradiso” di Dante si dice che “La mente innamorata è cieca”. Cosa pensa di questa immagine della cecità come condizione di assoluto coinvolgimento emotivo o spirituale?
La cecità ti pone in una costante meditazione: c’è un ascolto interiore e un ascolto esteriore, diventa inevitabilmente una guida all’essenzialità e in questo senso ha a che fare con lo spirituale. Ti porta via dalla critica estetica quotidiana. E poi, non a caso, è nel “Paradiso” che si parla di cecità. (Sorride)
“Attraversamenti” è il titolo del festival per cui ci siamo incontrate. Tra le varie definizioni del verbo “attraversare” c’è “passare oltre un ostacolo”. Questo verbo è anche un’esortazione, un invito all’esperienza e alla conoscenza. Al termine di questo incontro capisco che lei ne ha attraversate di strade diverse. Che cos’è per lei la strada?
È il confronto più immediato e reale che ci possa essere. È l’incontro. A Roma vivo nel quartiere Decima che è sviluppato come un piccolo paese. I palazzi sono tutti collegati e percorribili tramite i piani terra pilotis, per cui non ci sono reti, cancelli, muri che ti fermano e questa è una cosa che amo. Lo stesso varrebbe per qualunque altra strada, di qualunque altra città o nazione, l’importante è starci dentro, con il radar acceso.
Livia Filippi