In bilico tra pittura, scultura e installazioni site-specific, Valerio Giacone è un artista visivo la cui pratica affonda le radici in una visione profondamente umanistica dell’arte. Nei suoi lavori convivono la tensione verso il mistero dell’essere umano e una forte attenzione per le urgenze sociali del nostro tempo, tradotte attraverso una sperimentazione materica libera e consapevole.
Lo incontriamo in occasione del festival “Attraversamenti”, promosso dal Parco Archeologico dell’Appia Antica e da Teatri di Pietra, dove il 14 giugno sarà protagonista del talk “Per la ragione che cesserà di sognare”, insieme all’attore e coreografo Hal Yamanouchi. Un dialogo che si preannuncia intenso e visionario, in cui l’arte diventa strumento per interrogare il presente e, forse, riconnettersi a qualcosa di più profondo.
Sei molto legato alla natura e alla campagna marchigiana, dove sono nati molti dei tuoi lavori. Oggi vivi a Roma, in che modo le energie di questi due luoghi così diversi convivono dentro di te?
In campagna, il contatto con la natura mi riporta all’essenza, alla semplicità, al silenzio e alle radici. Questo ambiente mi ha aiutato a ritrovare me stesso attraverso il lavoro, permettendomi di entrare in una dimensione meditativa. Al contrario, la città è legata alla relazione con l’uomo, alla sua produzione culturale e architettonica: uno stimolo diverso, ma altrettanto necessario. Nei miei primi lavori emergevano architetture industriali legate alla vita urbana, ma anche elementi naturali, come il fuoco. La mia ricerca artistica, tra scultura e pittura, è diventata dunque una sintesi tra natura e urbanità.
Approfondiamo il tuo interesse per l’animismo. C’è una frase di Michelangelo che mi sta molto a cuore: “Ho visto un angelo nel marmo e ho scolpito fino a liberarlo”. In questa frase si avverte una visione quasi animista della materia, come se la forma esistesse già, in attesa di essere liberata. Nella tua ricerca artistica sembri partire dall’idea che ogni cosa possieda una propria anima. Quando lavori con i materiali in modo sperimentale, senti anche tu di “liberare” qualcosa che è già lì, nascosto?
Sì, il compito dell’artista secondo me è risalire all’elemento spirituale insito nella materia, sia essa cromatica – come il colore, che vive come un essere a tutti gli effetti – sia essa fisica, come terra, argilla o altri materiali. Questo intento è sempre stato centrale nel mio lavoro. Poichè la materia è intrisa di spirito, è come se quest’ultimo trovasse in essa una forma concreta, fisica.
Qual è la tua poetica del riutilizzo dei materiali?
La mia poetica del riuso nasce da una necessità legata ai costi dei materiali, ma soprattutto da una visione connessa al ciclo della vita e alla rinascita. Mi piace ridare vita o assegnare una nuova destinazione a elementi che ne avevano già avuta un’altra. Inizialmente la scelta avveniva in modo casuale, quasi fosse il materiale a cercarmi. In uno dei miei ultimi lavori, ad esempio, ho dipinto su pannelli decorati a foglia d’oro, ispirato da un’esperienza alla Mole Vanvitelliana di Ancona: nei soffitti c’erano dei grandi pannelli dorati che trovai bellissimi e chiesi di poterli utilizzare. Questi incontri epifanici e fortuiti mi guidano nell’uso dei materiali. All’inizio impiegavo più scarti urbani, ma intendo “scarti” in senso nobile: la cera d’api per gli encausti, il legno bruciato, il carbone per i colori, che riutilizzavo in modo inedito.
Anticipaci qualcosa sul talk “Per la ragione che non cesserà di sognare”. Da dove nasce questo titolo che mette in relazione due forze – la ragione e il sogno – che spesso vengono viste come opposte?
Il titolo, proposto dalla rassegna, è legato ad uno spettacolo ispirato al mito, in cui le due forze si intrecciano. La ragione è connessa a ciò che percepiamo con i sensi, al reale che cerchiamo di spiegare razionalmente. Il mito, invece, ci spinge a superare le apparenze, a oltrepassare le percezioni sensoriali per intuire la realtà profonda che vi si cela dietro. Questa realtà nascosta, oggi potremmo chiamarla sogno o intuizione, rappresenta una dimensione che sfugge alla spiegazione logica. La dicotomia tra sogno e ragione è sempre esistita, ma nell’Ottocento la scienza ha accentuato la fiducia nella razionalità, come se questa potesse spiegare ogni cosa. In realtà, la ragione spesso dice poco. È l’arte che, come un trampolino, ci aiuta a superare il visibile per cogliere l’essenza di ciò che sottende il mondo percepito.
Cosa significa per te condividere la tua ricerca su l’essere umano in un festival?
Il mio è un lavoro intimo: dipingo da solo e faccio una ricerca interiore in cui mi metto a nudo. Quando questa dimensione personale emerge nel sociale, può diventare un’esperienza condivisa e questo è molto bello. Tuttavia, per me che penso attraverso il disegno, i colori e le forme, esprimere tutto questo a parole è difficile e rischioso. Le parole possono deviare, mentre un quadro è lì, oggettivo, anche se dentro può contenere molti elementi soggettivi. Le parole, invece, si prestano a infinite interpretazioni: è per questo che bisogna usarle con cautela.
Proprio oggi, 11 giugno, il Consiglio regionale del Lazio vota la proposta di legge N. 171, che potrebbe legittimare la riconversione delle sale cinematografiche chiuse in spazi commerciali. Cosa ne pensi di questa sorta di desertificazione degli spazi culturali e sociali che sta avvenendo nella città di Roma e non solo?
Credo che ciò che accade nell’essere umano si riflette nella città. Roma è sempre più vetrina piuttosto che luogo vivo, dopo aver generato tanta storia, arte e cultura, si sta disumanizzando. Sono lontani i bei tempi in cui Renato Nicolini era sindaco di Roma e instituiva le giornate della poesia o l’Estate Romana, dove c’era un vero fermento culturale e umano. Le nuove generazioni, invece di nutrirsi di cultura e scambio, si alimentano di oggetti da acquistare e questo è malsano.
Nelle tue installazioni site-specific, il luogo non è solo uno sfondo, ma parte integrante dell’opera. Cosa ti trasmettono i luoghi dell’Appia Antica?
Un’opera artistica deve necessariamente dialogare con ciò che la circonda, per questo pensare ad un’installazione che possa viaggiare in contesti diversi mi sembra un po’ assurdo. Quello dell’Appia Antica è un contesto straordinario: una Roma rimasta intatta da millenni, dove si sente ancora il canto degli uccelli, si percepisce la luce che filtra dalle finestre della chiesa di San Nicola, dove avverrà il talk, si toccano pietre che raccontano storie più antiche di noi.
Raccontaci di Petra, la protagonista del fumetto da te realizzato, che racconta i luoghi del teatro di pietra.
Petra è nata insieme al Maestro Aurelio Gatti: è stata sua l’idea di dar voce, attraverso un fumetto illustrato, ai teatri di pietra. Volevamo entrare in quella che poi è la poetica di tutte le attività di “Teatri di Pietra” e di “Attraversamenti”, di offrire uno sguardo più ampio sulla relazione tra l’uomo, il mondo circostante e la natura. Petra incarna il desiderio di trasmettere un pensiero oggi controcorrente: vivere i luoghi e i teatri con rispetto, in modo attivo, come accade appunto in “Attraversamenti”. Restituire loro una nuova vita e una fruizione consapevole, anziché ridurli a spazi di consumo rapido e superficiale. Petra è una donna sensibile, attenta, con gli occhi spalancati e il cuore aperto, in viaggio nel mondo alla ricerca dello stupore, quell’elemento che oggi abbiamo dimenticato. Vive nel presente, ma abita anche una dimensione onirica: riesce a cogliere quegli spiragli di luce che la realtà, a volte, ci offre, ma che spesso non vediamo.
Che lavoro hai realizzato per l’evento “CLORIS” svoltosi a l’orto botanico di Palermo?
“CLORIS” è stata una bellissima esperienza ideata da Teatri di Pietra. Abbiamo messo in comunicazione i teatri antichi siciliani, con le specie vegetali autoctone. Il nostro lavoro ha voluto sintetizzare il legame tra ciò che nasce dalla natura e ciò che è frutto dell’uomo. Un tempo, gli uomini cotruivano con sapienza in luoghi precisi perché in profondo contatto con essi: questo dialogo tra natura, architettura e teatro è oggi uno spunto di riflessione affascinante. In questa occasione ho realizzato 14 disegni, immaginando un dialogo tra le piante e i 14 luoghi coinvolti.
La tua arte si confronta con le problematiche sociali contemporanee. In un tempo saturo di immagini, come riesci a far sì che un’opera d’arte non diventi solo una “reazione”, ma un “atto generativo”?
Il mio lavoro nasce da un patrimonio di ricchezza interiore fatto di letture, esperienze, riflessioni. Durante l’atto creativo, dentro di me si attiva una risposta profonda a tutto ciò che l’anima ha elaborato. Si parla di “reazione” quando si parte razionalmente da un pensiero – ad esempio: “il mondo va verso una catatrofe ambientale” – e si realizza un’opera che esprime questo concetto. Io invece opero diversamente: lascio che gli spunti maturino in me e poi permetto, con consapevolezza, che siano le mani e il cuore a guidare il processo.
Quanto è importante per te il “fare con le mani”?
È fondamentale: l’essere umano porta il pensiero nelle mani. Il tatto è alla base della crescita, e un uomo che non viene non toccato non si sviluppa in modo sano. L’abilità manuale è essenziale per liberare un pensiero dinamico, agile e autonomo, e questo dice molto su ciò che accade oggi. Noto con preoccupazione che i bambini usano sempre meno le mani. L’uso eccessivo della tecnologia esaspera questo processo. Abbiamo perso il contatto con la realtà, con la terra, con gli elementi e quindi anche con noi stessi. Per questo, nelle scuole propongo sempre più spesso attività di modellaggio e manipolazione.
Operi da anni in ambito sociale, pedagogico e terapeutico. Cosa significa aiutare qualcuno a “fiorire” invece che a “funzionare”?
Esistono basi fondamentali quali valori, capacità di dialogo e pensiero autonomo, su cui dovremmo concentrare l’attenzione affinché l’uomo diventi davvero tale, perché oggi siamo ancora lontani da quell’ideale. Una macchina, come una lavatrice, può “funzionare”; l’uomo non funziona: l’uomo vive. E per vivere ha bisogno di pensare bene, sentire bene e agire bene. Queste tre dimensioni devono essere in armonia, altrimenti ci ammaliamo, soprattutto a livello psicologico.
Quale consiglio daresti a chi osserva una tua opera e quale, invece, ad una persona qualsiasi?
Accade spesso che, durante le mostre che facciamo alla galleria d’arte Faber, di Roma, le persone mi chiedano: “Dimmi qualcosa”. E io rispondo che non c’è nulla da dire. Il consiglio che darei a chi si trova difronte una mia opera è di sostarci il più possibile e aspettare che parli loro. Ogni opera vive nello sguardo di chi la osserva. A chiunque invece direi di riappropriarsi del tempo. Viviamo in un’epoca veloce, dove un’immagine si consuma in tre secondi e poi si scorre oltre, leggere un libro è sempre più difficile. Consiglio un giorno di andare in campagna, osservare una pianta e quanto tempo impiega affinché possa nascere un fiore. La natura ti dà la misura del tempo che ci vuole per interiorizzare, elaborare e far fruttare.
Livia Filippi