Il Monteverdi Festival è il più importante festival italiano di musica barocca, dedicato al creatore dell’Opera lirica, il cremonese Claudio Monteverdi. Un festival giunto alla 42° edizione dalla chiave di lettura innovativa e traversale, nato nel 1983 come Festival di Cremona con la volontà di offrire la possibilità di condividere e onorare il patrimonio musicale della città. Si è fatto via via manifestazione a se stante dalla IV edizione, promuovendo una rassegna che ha ospitato i più illustri nomi della musica classica e barocca. Molti anche quest’anno gli appuntamenti di rilievo, fra concerti di spiccato valore e due nuove produzioni d’opera Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi ed Ercole amante di Francesco Cavalli, oltre a incontri e residenze formative. L’evento che sbalza in quest’edizione 2025 è l’arrivo al Festival di una delle figure più conosciute del mondo della vocalità barocca, il celebre mezzosoprano Cecilia Bartoli, che si esibirà nell’opera di Gluck Orfeo ed Euridice, unita all’inseparabile ensemble Les Musiciens du Prince, diretto da Gianluca Capuano. Orfeo ed Euridice composta da Christoph Willibald Gluck è uno dei rari casi di opera settecentesca che non ha conosciuto l’oblio, essendo stata eseguita nei suoi 250 anni di vita con una certa regolarità. Scritta per Vienna il 5 ottobre 1762 per il Teatro di Corte, il Burgtheater, a coronamento delle celebrazioni per il giorno onomastico (anche se in realtà era il 4, San Francesco d’Assisi) dell’Imperatore Francesco I. Orfeo ed Euridice nasce come «azione teatrale», che, nella forma aerea di una festa, si svincolava dalle rigide strutture musicali in cui era inquadrata l’opera seria, per meglio adeguarsi alla circostanza celebrativa. Un soggetto mitologico, incorniciato in una struttura fantastica di scenografie spettacolari (cui non era estraneo lo sfarzo), vedeva dispiegarsi la trama su un ordito di elaborata e ricca orchestrazione, con largo impiego di danze e punteggiata da vibranti partecipazioni corali. L’incontro fruttuoso che Gluck ebbe intorno alla figura di Orfeo nel libretto versificato da Ranieri de’ Calzabigi, ebbe a frutto il capolavoro che possediamo. La stilizzazione del mito, ancora ben radicata nella seconda metà del settecento, esigeva che a impersonare il protagonista fosse una voce aulica, quella di un contraltista evirato, il lodigiano Gaetano Guadagni, celeberrimo per l’espressività del canto, creatore dell’Orfeo gluckiano. Valente musicista anche, tanto da creare una propria versione dell’opera (probabilmente da eseguire in un’occasione privata), conservata a Padova. Ragioni di stilizzazione queste che verranno meno più tardi, quando Gluck a Parigi rimaneggerà e farà riversificare l’opera, trasportando Orfeo in chiave di tenore contraltino, precisamente l’haute-contre Joseph Le Gros. A metà ottocento Berlioz si troverà in un grave dilemma quando, riscoperta la partitura, dovrà adattarla alla voce del contralto Pauline Viardot, sorella della Malibran. Da lì nacquero i molti tentativi di adattamento di Orfeo ed Euridice che rispecchiassero il più fedelmente possibile l’idea concepita dal compositore. Ozioso stare a disquisire su quale delle versioni sia la migliore o più giusta, quale versificazione sia più aerea e pregnante: entrambe son figlie di una diversa poetica. Nell’ambito del raffinatissimo Monteverdi Festival cremonese si è eseguito Orfeo di Gluck nella versione di Parma del 1769, con Atto d’Orfeo tratto da Le feste d’Apollo. Febbrile quanto ispirata la direzione di Gianluca Capuano che rende la ricchezza cromatica della partitura gluckiana in ogni dettaglio; calda la resa espressiva, tesa ed energica ma sempre restando nel solco di un fraseggio aulico. Ora patetica ora di astratta purezza e intima dolcezza, rende l’atmosfera incantata dell’idillio pastorale e un senso di nostalgia per un’età aulica in cui i piani di lettura si mescolano e intersecano già dalla celebrativa ouverture, fascinosamente resa a luci accese, con la compagine orchestrale de Les Musiciens du Prince – Monaco che segue in ogni ripiegata intenzione il direttore, trascinata dalle sue “prime parti”a creare il climax. Struggente in accompagnamenti, rende i brividi e lo spaventevole terrore dell’Erebo; vorticoso si fa l’andamento orchestrale delle furie per sciogliersi in toccante momento al passaggio di Orfeo dalle zone infere ai Campi Elisi. Che dolcezza! E l’avvolgente malinconico ritmo finale, che si fa morente, dell’addio allo spirito dell’amata. Inutile dire che il trionfatore della serata è Cecilia Bartoli, che plasma il personaggio conferendogli un vibrante alito vitale a Orfeo. Il volume di voce bene si adatta allo spazio della sala del Ponchielli, piegando la tessitura a un fraseggio pregnante, sempre a fini interpretativi. Attrice convincente e partecipe, in un’edizione eufemisticamente “da concerto”, che lei vivifica e rende pulsante con l’intensità e la partecipazione di studiati movimenti drammaturgici, non facendo rimpiangere un allestimento scenico. Il timbro del mezzosoprano conserva, dopo trentacinque anni di carriera, calda brunitura, un’omogeneità di registri, un legato perfetto. L’interprete, con la profondità di quegli sguardi, è apparsa ulteriormente maturata, trovando calda espressività e giusti colori vocali per esprimere con ricchezza di sfumature gli stati d’animo del cantore. Con le lamentevoli ripetizioni di “Euridice”, nell’aria iniziale, declinate in diverse sfumature, entra subito in parte: seguono commoventi richiami alla felicità passata, in cui concentra lo straziante dolore per la perdita dell’amata. Scioglie in lancinante fraseggio la passione che la travolge nella triplice invocazione Chiamo, cerco, piango…il mio ben così: con tenerezza e partecipata malinconia la prima, lenta e impreziosita da mezzevoci la seconda ripetizione, e quasi grido di trafiggente disperazione, l’ultima. L’accento si fa poi impetuoso e al calor bianco rivolgendosi agli Dei infernali – sempre mantenendo nobile aulicità – per sciogliersi infine in canto dolce e toccante rivolto alle Furie che, commosse, lo lasciano proseguire. Estatici accenti nell’impagabile Che puro Ciel reso con sensibilità e canto soavemente sospeso. Non mancano scatti di fiera umanità e disperazione… Commovente la celebre chiusura Che farò senza Euridice! in sbalzo di tempi delle due sezioni, si fa infine struggente nel richiamo all’ombra che se ne parte per sempre…Voce omogenea e tonda, quella di Mèlissa Petit, Euridice convincente pur in minor eloquenza di passionale accentazione, trovando nell’esecuzione dell’aria uno sviluppo più armonioso. Suo anche il breve intervento di Amore, giovanile e partecipe. Avvolgente compagine corale de Il canto di Orfeo, diretto da Jacopo Facchini, nei diversi e articolati interventi. Successo calorosissimo, reso ancor più festante da una pioggia di rose e ovazioni da stadio che hanno travolto cantanti, direttore e orchestra. Serata memorabile. Al Teatro Ponchielli di Cremona
gF. Previtali Rosti