28 Years Later: Danny Boyle torna con un horror post-pandemico innovativo

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Stare al passo con i tempi non significa semplicemente adottare nuovi mezzi, ma farlo con urgenza e consapevolezza. È una questione di necessità narrativa. Due casi recenti in cui questa urgenza si è manifestata con forza sono Bird di Andrea Arnold e 28 Years Later, il ritorno di Danny Boyle all’universo infetto da lui stesso inaugurato nel 2002 con 28 Days Later.

Nel nuovo capitolo della saga – scritto ancora una volta da Alex Garland e prodotto da Sony insieme a DNA Films – Boyle utilizza uno strumento tanto semplice quanto efficace: lo smartphone. Ha affidato letteralmente i telefoni agli attori per girare alcune scene d’azione, ottenendo una prossimità e una tensione impossibili da replicare con una camera tradizionale. Il risultato è uno sguardo nuovo, curioso, energico, che sa ancora sorprendere. E quale miglior terreno per sperimentare, se non l’horror?

28 Years Later un romanzo di formazione post-pandemico

Boyle torna al genere con intatta voglia di esplorare, utilizzando l’infezione come lente per raccontare qualcosa che va ben oltre la paura: 28 Years Later è anche un romanzo di formazione, un racconto post-pandemico in cui i personaggi affrontano la perdita, il rapporto con l’altro, l’individuo e la comunità, l’accettazione della fine e del cambiamento. Non è la durata che conta, ma la qualità del tempo condiviso. È un film sull’identità, sulla ricerca di un posto nel mondo, sul bisogno di trovare senso anche nel caos.

In questo paesaggio emotivo devastato, c’è spazio anche per l’incontro con chi ha fatto pace con la morte e ne ha accolto la traccia come memoria, non come condanna. Una figura marginale ma cruciale, che restituisce umanità all’infezione e invita a ricordare che ogni corpo racconta una storia. Un memento mori silenzioso, che rende il film ancora più profondo nel suo sguardo sul dolore e sulla dignità.

Colonna sonora metal e atmosfere da videogiochi

Tutto questo accade tra martelli e lance, inseguimenti adrenalinici, corpi dilaniati e colonne vertebrali strappate – ma sempre con un senso. E soprattutto con una colonna sonora metal che non accompagna, ma carica le immagini, dando una forza iconica alle scene d’azione. La paura si trasforma in eccitazione, l’orrore si fonde con l’epica, e ci sono momenti che ricordano il linguaggio dei videogiochi, nella dinamica visiva e nel coinvolgimento fisico.

Boots e il terrore che si insinua

Un dettaglio significativo: raramente una canzone scelta per un trailer entra davvero a far parte del film. Di solito è il contrario. Eppure qui, Boots – un brano militaresco usato dai britannici per preparare psicologicamente i soldati alla tortura – apre il film, con una marcia inquietante e disumanizzante che preannuncia l’orrore. Boyle ha raccontato che voleva evocare non tanto il terrore esplicito quanto quello insinuato, che si muove sotto pelle: e infatti, in 28 Years Later, è ciò che non viene mostrato in modo grafico a risultare davvero disturbante.

Il pubblico femminile e il nuovo volto dell’horror

Durante il dibattito seguito all’anteprima stampa, Boyle ha condiviso un aneddoto rivelatore sul pubblico dell’horror. Ai tempi dei primi due film, i test screening erano stati pensati esclusivamente per un target maschile, perché le spettatrici non venivano considerate statisticamente rilevanti. Oggi non solo il pubblico femminile è incluso, ma è proprio da lì che sono arrivati i feedback più forti: molte donne sono rimaste dopo la proiezione per discutere, coinvolte dalla storia e colpite da una narrazione che, pur partendo da coordinate horror, le ha toccate in profondità. “Non sembra un horror”, hanno detto. E forse è proprio questo il punto.

Un film punk

C’è qualcosa di profondamente punk in 28 Years Later: nell’estetica ruvida, nella scelta dei mezzi, nella tensione costante a superare i limiti del genere. Un film punk, appunto, nel modo in cui alza il volume e grida, con stile e sostanza.

Federica Guzzon

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