Un classicone ottocentesco rivive in questi giorni al Teatro alla Scala: Paquita, un balletto del 1846 con coreografia originariamente di Joseph Mazilier su musica di Edouard Deldevez; qui invece va in scena la versione del 2001, ripresa poi nel 2010, di Pierre Lacotte per l’Opéra di Parigi, dato che dal 1887 non fu più rappresentato.
Il balletto è ambientato in Spagna durante l’occupazione napoleonica. Il generale d’Hervilly, accompagnato dalla moglie e dal figlio Lucien, è venuto a controllare il monumento che sta facendo erigere in memoria di suo fratello Charles, assassinato con moglie e figlia. Il governatore della provincia, Don Lopez, e sua sorella Serafina, promessa a Lucien, accompagnano il generale e si uniscono, in apparenza, al suo dolore: in realtà Don Lopez, come tutti i suoi connazionali, odia profondamente i francesi. Per celebrare la costruzione del monumento, il villaggio è in festa; arriva una compagnia di zingari, il cui capo, Iñigo, ha messo gli occhi su Paquita, che conserva fin dall’infanzia un medaglione con un ritratto che crede rappresentare il benefattore sconosciuto che la salvò dalla morte. Lucien ne è profondamente colpito, ma Paquita si considera troppo umile per rispondere alle avances del giovane aristocratico; Iñigo, folle di gelosia, si accorda con Don Lopez per uccidere Lucien, ma Paquita ascolta non vista la loro conversazione. Arrivato Lucien in cerca di Paquita, Iñigo fa servire la cena e mescola un sonnifero nel vino, ma Paquita riesce a scambiare i bicchieri, ed, una volta crollato Iñigo, fugge con Lucien. Durante un ballo organizzato dal generale d’Hervilly arriva Lucien con Paquita, raccontando come sia scampato per poco alla morte grazie alla giovane. Paquita denuncia il colpevole: è Don Lopez, che viene arrestato. Lucien chiede la mano di Paquita, la quale non osa accettare perché sa di non essere al suo livello, ma scorge un ritratto alla parete che raffigura lo stesso uomo del suo medaglione: è Charles. L’ufficiale era dunque suo padre e lei, sfuggita al massacro della sua famiglia, fu poi accolta dagli zingari. Paquita ha quindi ritrovato la sua famiglia ed il suo rango e può sposare Lucien.
Un tipico drammone ottocentesco, con tutti gli ingredienti principali che piacevano tanto al gusto di quell’epoca: l’esotico, rappresentato dagli zingari e dall’ambientazione in Spagna, il dramma, la figlia persa e ritrovata, l’amore contrastato, il lieto fine. Pierre Lacotte, danzatore e coreografo francese scomparso nel 2023, ha dedicato gran parte della sua vita artistica a ricostruire balletti romantici del periodo imperiale russo, molti finiti nel dimenticatoio: Coppélia (1973), La Vivandière (1976), Le Papillon (1982), La Fille du Pharaon (2000), Paquita appunto (2001), Ondine (2006). Un lavoro molto pesante dal punto di vista tecnico, con molti virtuosismi, una serie infinita di sautés e pirouéttes, dove si vede praticamente tutto il repertorio accademico in ogni sua variante; un’opera decisamente ottocentesca, come trama e come disegno coreografico, con una buona dose di interpretazione mimica, tipico dei Balletti Imperiali, con relativa codifica di gesti con significato. Poco più di due ore senza pace dal punto di vista della fatica fisica e tecnica, dove se non si è più che preparati non se ne esce. Ed è quanto si è visto. Un corpo di ballo molto impreciso, con mancanza di insieme, file non rispettate, spazi fra i danzatori non uniformi, addirittura scivolate a terra, insomma, tutto un po’ a caso. Per fortuna i solisti sollevano un po’ la situazione: Nicoletta Manni è una Paquita nel ruolo, tecnicamente all’altezza, a parte un’imprecisione, molto interpretativa; Nicola Del Freo è il suo Lucien, sottotono rispetto al suo solito, forse affaticato e troppo preso dagli impegni, che non c’entrano nulla con il suo lavoro di danzatore, che gli procura la moglie Virna Toppi. La danza non perdona… Ottimo Marco Agostino come Iñigo, bravo tecnicamente ed a suo agio nel ruolo. Del Pas de Trois, un impreciso Alessandro Paoloni sparisce di fronte alle belle e brave Camilla Cerulli e Linda Giubelli, sempre delle certezze, come peraltro Navrin Turnbull e Mattia Semperboni nei ruoli degli ufficiali. Nelle altre repliche, Martina Arduino con Timofeij Andrijashenko ed Alice Mariani con Navrin Turnbull nei ruoli principali, sciogliendo per una volta le coppie nella vita che, inspiegabilmente, sono spesso anche coppie sulla scena.
Le scenografie ed i bellissimi costumi di Luisa Spinatelli completano un’opera senza tempo che meriterebbe di essere rappresentata più spesso ma soprattutto meglio. Da vedere.
Chiara Pedretti