Ci sono incontri che non si consumano nel tempo, ma che si inscrivono nell’anima. L’intervista che segue è uno di questi: un dialogo con Padre Guidalberto Bormolini, monaco, sacerdote, antropologo teologico e, soprattutto, uomo del sacro. Una figura capace di tenere insieme il silenzio della meditazione e il fragore dell’esistenza, la tradizione e la ricerca dell’uomo contemporaneo.
In molti lo conoscono per la sua opera instancabile nel dialogo interreligioso, per il suo impegno nell’accompagnare spiritualmente le persone nel morire, per la dolce radicalità con cui ha restituito valore alle pratiche ascetiche cristiane, all’amore per la Creazione, al corpo come luogo dell’anima. Molti altri, lo hanno conosciuto come padre spirituale, e amico intimo, di Franco Battiato, artista di rara profondità spirituale e cercatore instancabile dell’Assoluto. Nonostante quello di Battiato fosse un atteggiamento laicamente religioso o forse proprio grazie a questo, Bormolini e Battiato hanno condiviso l’amore per la contemplazione e l’arte come via iniziatica. La loro amicizia è durata dieci anni ed è proseguita fino ai suoi ultimi giorni. Bormolini è dunque un testimone discreto e luminoso del suo passaggio terreno.
Lo abbiamo incontrato in occasione del talk “Per la poesia infinita del creato” che terrà al fianco dell’economista Gabriele Guzzi, il 1 luglio al festival Attraversamenti, promosso dal Parco Archeologico dell’Appia Antica e da Teatri di Pietra.
Arte e spiritualità, il dialogo tra le religioni, la morte non come fine ma come trasformazione, e soprattutto la libertà, quella vera, che nasce dal lasciare andare. A parlarci di tutto questo non è stato solo un monaco o un teologo, ma un uomo che ha fatto della vita interiore un cammino condiviso, aperto a tutti: credenti e non credenti, artisti e scienziati, inquieti e contemplativi.
Nel talk “Per la poesia infinita del creato” si parlerà di economia e spiritualità, due ambiti che appaiono spesso lontani. Qual è la sua visione su questo rapporto?
Non possiamo dimenticare che l’intero cosmo partecipa alla creazione dell’uomo. L’essere umano è costituito da tre dimensioni inseparabili: corpo, psiche e spirito.
Nel mio percorso, in particolare nell’ambito dell’economia spirituale, ho sviluppato una teoria secondo la quale i bisogni fondamentali dell’essere umano — fisici, psichici e spirituali — non sono mai isolati, ma sempre intrecciati tra loro: ciascuno richiama e sostiene l’altro.
Perfino un gesto semplice come il nutrirsi è un atto spirituale; non a caso, nel cristianesimo, è divenuto il simbolo per eccellenza del sacramento. Quando la spiritualità è davvero il centro della propria esistenza, ogni azione quotidiana — anche la più ordinaria — agisce contemporaneamente su tutti i livelli dell’essere.
Con Franco Battiato avete condiviso un’amicizia profonda. Qual è stato il senso spirituale di questo legame?
Franco mi aveva cercato perché era profondamente interessato al tema del rapporto tra vita e morte, desiderava realizzare un docufilm su questo argomento: è così che ci siamo conosciuti.
Fin dal primo giorno che trascorremmo insieme, nacque un legame profondo, che poi si è rafforzato maturando nel tempo. Il nostro era un rapporto fondato sulla dimensione spirituale. Franco mostrava un grande interesse per una riscoperta del cristianesimo, che viveva però in modo estremamente libero; proprio per questo, non mi sento di attribuirgli alcuna etichetta.
Nel frattempo, la sua malattia progrediva, e con l’avvicinarsi degli ultimi tempi, anche la sua interiorità spirituale si intensificava. Si è preparato con consapevolezza e profondità al viaggio finale che lo attendeva, un passaggio che non temeva.
Che significato aveva il mondo della mistica per Battiato e in che modo lo viveva?
Per Battiato, il mondo della mistica era centrale, non solo nella sua visione della vita, ma anche nel modo in cui concepiva la musica e la canzone. Era profondamente convinto che il mondo delle apparenze non bastasse a colmare il senso della propria esistenza, né quello dell’umanità, e ha cantato molto questa intuizione. Le sue canzoni erano orientate a uno sguardo profondo, interiore, sull’esistenza.
Ricordo che un giorno, con la sua consueta ironia, mi disse: “Sì, sì, canzoni d’amore. Ma che amore?”. Questa frase esprime bene la sua ricerca di un significato più alto, di un amore che non si esaurisse nella superficie del sentimento. La spiritualità, il mistero e la tensione verso ciò che è oltre le apparenze hanno costituito un elemento essenziale, quasi strutturale, della sua poetica artistica.
È vero che alcune sue canzoni non contengono riferimenti espliciti alla dimensione spirituale, ma in fondo anche quelle ne sono impregnate.
Lei che rapporto ha con l’arte?
L’arte occupa un posto centrale nella vita di chi ha una vita spirituale, perché la poesia, la bellezza, riescono a esprimere il mistero molto più profondamente di quanto possano fare le spiegazioni o i ragionamenti. Uno spirituale che non si nutre anche di arte riduce la spiritualità ad un esercizio puramente razionale. Il linguaggio dell’arte ha una forza che supera quello della ragione.
Gandhi sosteneva che “Le religioni sono diverse strade che convergono verso lo stesso punto. Che importa se si segue una via o un’altra, purché si arrivi alla vetta?” Lei che è coinvolto da tempo nel dialogo interreligioso, come riesce a restare profondamente cristiano e al tempo stesso aperto alle altre fedi?
Non credo che tutte le strade si equivalgano: questa è una visione un po’ consumistica della spiritualità. Penso piuttosto che, se una via è autentica, allora conduce all’Infinito. Le grandi tradizioni che hanno abitato la storia dell’umanità – come l’induismo, il buddhismo, la filosofia greca – erano profondamente ammirate anche dai Padri della Chiesa cristiana. C’era in loro la convinzione che semi divini fossero stati sparsi in ogni tradizione e che questi potessero germogliare in modi sorprendenti e in luoghi inaspettati.
Papa Francesco, in un pronunciamento molto significativo fatto insieme alla principale autorità dell’Islam sunnita, ha affermato che il pluralismo delle religioni è frutto della sapiente volontà divina. Per questo non credo che tutte le vie siano uguali, ma riconosco che la pluralità religiosa è parte di un disegno sapiente.
Personalmente ho avuto la fortuna di incontrare grandi rappresentanti di tutte le religioni del mondo. Ho partecipato a ritiri e incontri in molte parti del Pianeta, conoscendo figure di altissima elevatura spirituale, da cui ho ricevuto un profondo arricchimento. Ogni volta, sono tornato a casa come cristiano, ma un cristiano rinnovato, arricchito. Chi guarda solo dentro sè stesso finisce per impoverirsi.
L’incontro con l’altro ti spinge a far emergere il meglio di te stesso per condividerlo e ti offre anche l’opportunità di riscoprirti attraverso gli occhi dell’altro. Se guardo a come il popolo musulmano vive la propria fede, non posso che imparare dalla loro intensità, fedeltà, lealtà, presenza e fiducia. Quando mi confronto con il senso del mistero nelle culture dell’Estremo Oriente, o con le loro pratiche meditative, sento il desiderio di diventare un cristiano che medita.
La filosofa Simone Wijl scriveva che “La grazia discende soltanto sui corpi in stato di attenzione”. Come si può allenare oggi questa attenzione del corpo e dell’anima, in un mondo sempre più distratto?
L’attenzione è un’arte fondamentale. Buddha diceva: “L’attenzione conduce all’immortalità, la non attenzione alla morte”. In un mondo come il nostro, dominato da continue sollecitazioni – spesso di bassa qualità – la presenza mentale, l’attenzione e la consapevolezza diventano più che mai necessarie. Siamo immersi in un flusso costante di stimoli: la pubblicità, il continuo passare da una forma di consumo all’altra generano uno stato di agitazione mentale incessante.
La meditazione, nello stato di yoga, mira proprio a interrompere questa eccitazione della mente. Tuttavia, oggi uscire da questa spirale non è semplice: richiede una buona squadra di lavoro e una comunità di sostegno. Farlo da soli non è impossibile, ma certamente molto difficile.
È un po’ come nella musica: se vuoi imparare a suonare uno strumento, ma non fai riferimento ad una buona scuola, non ci riuscirai. Certo, esistono gli autodidatti, ma sono eccezioni – e spesso le leggende che li circondano non corrispondono alla realtà. Quasi sempre si tratta di persone che hanno studiato, anche intensamente.
Abbiamo bisogno di una comunità e di metodo. La scuola permette di entrare in un gruppo, ma essa stessa può risultare anche un ambiente limitante, perché richiede una certa conformità. La comunità, invece, ha un sapore diverso: sa di accoglienza, di creatività, di libertà artistica.
Dovremmo entrare nella logica del “fare comunione”, proprio come accade nelle sinfonie di un’orchestra. In un’orchestra ogni strumento è diverso, e dev’essere tale: non è necessario renderli tutti uguali, ma armonizzarli. La bellezza nasce dalla differenza messa in relazione, non dall’omologazione.
Avendo accompagnato con un sostegno spirituale molte persone nel fine vita, le chiedo qual’è secondo lei il più grande fraintendimento che oggi abbiamo nei confronti della morte?
Che la morte sia cessazione, che sia un opposto della vita. Ma in realtà, la morte è un fenomeno interno alla vita stessa. Un bambino “muore” come bambino per nascere adolescente, poi muore come adolescente per rinascere adulto. Muore come studente e nasce come professionista, muore come single e nasce come persona sposata. Allo stesso modo, il sole muore nel tramonto e rinasce nell’alba; il grano muore per diventare farina, e in quella trasformazione accede a una nuova forma di vita.
Spesso ripetiamo il principio di Antoine-Laurent Lavoisier “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, ma poi, paradossalmente, trattiamo la morte come se fosse davvero la fine assoluta di ogni cosa. Pensare la morte come annientamento significa andare contro un’esperienza umana universale, della quale ovviamente anche noi facciamo parte.
Cosa vuol dire per lei trasgredire?
Andare oltre. Dobbiamo imparare ad andare oltre ciò che è visibile, perché dentro di noi c’è un bisogno profondo di tendere all’infinito. Eppure, troppo spesso ci fermiamo al finito, quando invece siamo fatti per ciò che non ha fine.
Mi racconti di “Borgo tutto è vita”, il borgo abbandonato che avete ricostruito tra i boschi in provincia di Prato, dove tra l’altro, il 29 giugno andrà in scena la performance “Il divino labirinto delle cause e degli effetti”.
Il Borgo tutto è vita è nato come una vera e propria sfida alla morte: era un luogo abbandonato, un borgo “morto”, e noi, partendo dai ruderi, lo abbiamo riportato in vita. Non c’erano né acqua, né strade, né elettricità. È diventato un simbolo di morte e resurrezione, un luogo pensato per accogliere chiunque.
È un rifugio per chi ha smarrito la via, per chi non riesce a trovare un senso alla propria esistenza, o non riesce a sopportarne il dolore — che si tratti di un lutto, di una malattia o di altre ferite profonde. Il nostro intento è offrire strumenti concreti e semi di speranza.
All’interno del borgo si trova la Casa Belgrano, pensata per ospitare persone affette da gravi malattie. Stiamo anche avviando attività incentrate sulla meditazione, come percorso di cura e trasformazione interiore.
Uno degli ostacoli più grandi che noi giovani incontriamo nelle relazioni è l’illusione di poter amare qualcuno senza riuscire davvero a fidarci. Lei cosa ne pensa?
L’amore richiede fiducia: per amare davvero bisogna fidarsi, altrimenti non si può parlare di amore. Questa è una base radicale.
All’inizio della storia umana c’è quella che possiamo considerare una leggenda universale dell’Eden, presente in forme diverse in moltissime culture — dall’Africa al Perù, dai nativi americani alla Cina e all’India. L’umanità aveva un Eden, un paradiso originario, che ha perduto a causa di una libertà radicale: “Ti dò un giardino, fanne ciò che vuoi.”
Questo racconto ci insegna che la libertà è il fondamento stesso dell’amore. Ma la libertà, per essere piena, deve condurre a un passo ulteriore: la scelta consapevole e libera di fidarsi.
Noi ci fidiamo del sole e della luna, che ci donano luce, calore, pioggia. Ci fidiamo del cibo che mangiamo. E dovremmo fidarci anche degli esseri umani che abbiamo scelto di amare.
Livia Filippi