Norma è opera che manca troppo spesso dai nostri cartelloni e finalmente anche il Teatro alla Scala ha spezzato l’incantesimo che teneva lontano il capolavoro di Bellini da Milano, mancando dal palcoscenico scaligero dal 1977, in cui fu proposta nell’interpretazione di Montserrat Caballè, diretta da Gianandrea Gavazzeni. Wagner ebbe a definire Norma di Vincenzo Bellini come un’opera “Nobile e grande, pura come la natura stessa”: uno dei capolavori maggiori che la felice stagione del melodramma italiano del primo ottocento ha saputo creare. La partitura esce dalle mani del compositore catanese come un lavoro d’apparente semplicità armonica, mentre è il frutto meditato e perseguito con infinite correzioni, tagli e rimaneggiamenti operati dal musicista con impegno maniacale. Sfolgora nel firmamento dei titoli operistici di tutti i tempi per le pagine vocali, soprattutto femminili, ma anche per i possenti cori, interpreti di una passione collettiva. I duetti, specialmente quelli del secondo atto, attingono vertici sublimi, carichi di una forza drammatica che raramente è stata raggiunta in seguito. Norma nasce nell’estate del 1831, quando il librettista Romani e il compositore catanese si trovarono concordi sul soggetto dell’opera che avrebbe inaugurato la Stagione di Carnevale del Teatro alla Scala. Libretto tratto da una tragedia in cinque atti d’Alexandre Soumet, che a Parigi aveva aperto la Stagione del Teatro Odeon; nel ruolo principale M.lle George, una delle grandi attrici del tempo, aveva riportato un grande successo. La trama è essenzialmente quella della Medea di Euripide, con la variante (molto romantica) che l’eroina, anziché sacrificare i suoi figli, condanna se stessa al rogo. Nella scelta del soggetto, Romani tenne ben presente le caratteristiche della compagnia di cantanti che la Scala aveva messo sotto contratto: punta di diamante del cast era Giuditta Pasta, straordinaria primadonna che in quegli anni occupava un ruolo di supremazia incontrastato. La Pasta era particolarmente versata nei ruoli tragici, e il personaggio di Norma le calzava a pennello; senza contare poi il barbarico esotismo della vicenda, molto gradito al pubblico di quegl’anni. Una sacerdotessa che diventa sacrilega per amore costituiva la trama di un altro recente successo, La Vestale, melodramma di Gaspare Spontini dato alle scene nel 1807. La partitura belliniana, dopo periodi turbolenti, fu pronta per le prove del 5 dicembre, ma anche qui non poté godere della necessaria tranquillità. A Giuditta Pasta non piacque il Casta diva, ma Bellini, con opera di persuasione, riuscì a persuaderla promettendole di apportare modifiche in caso d’insoddisfazione. La prima rappresentazione costituì la tradizionale apertura della Scala, la serata di Santo Stefano del 26 dicembre 1831, in cui erano abbinati a Norma ben due balli completi: Merope e I pazzi per progetto. Il cast comprendeva, oltre alla Pasta nel ruolo principale, Giulia Grisi (allora poco più di una debuttante) quale Adalgisa, il bergamasco Domenico Donzelli, Pollione e Vincenzo Negrini, Oroveso. La serata fu di grande frustrazione per Bellini (un fiasco, come ebbe a scrivere, esagerando, all’amico Florimo) in cui fu fatto segno di ostilità e da poche dimostrazioni d’entusiasmo. In sala quella sera c’erano i partigiani di Giuseppe Pacini, il cui Corsaro doveva succedere a Norma nel gennaio successivo. Il debutto, non necessariamente disastroso come da decenni ci vuol far credere l’amico e biografo del musicista, rimase sempre uno smacco per il sensibile compositore, che aveva investito molte energie in questo nuovo lavoro: le cause del mancato successo si possono addebitare alla coppia di protagonisti, Giuditta Pasta e Domenico Donzelli, arrivati esausti alla prima, provati dalla fatica d’estenuanti prove. Forse anche per la cabala ordita dagli amici e sostenitori di un compositore rivale, Giovanni Pacini. Chissà. Già la seconda rappresentazione mostrò un clima diverso, molto più caloroso, portando a trentaquattro il considerevole numero delle repliche e Giuditta Pasta fece del personaggio della sacerdotessa druidica una delle pietre miliari del suo repertorio. Bellini, nell’agosto del 1832, era a Bergamo per curare personalmente l’andata in scena di Norma nella città orobica, sempre Giuditta Pasta quale interprete principale. L’opera fu data, presente lo stesso Bellini, al Teatro Riccardi (prima che si chiamasse Donizetti) dove riceverà entusiastiche accoglienze, spiccando così il volo per la gloria internazionale. Il ruolo protagonistico divenne in breve tempo termine di paragone per ogni soprano di fama; dai giorni leggendari della Pasta si succedettero Giulia Grisi, Jenny Lind, Therese Tietjens, Lilli Lehmann, Rosa Ponselle, Claudia Muzio, Gina Cigna per arrivare a Maria Callas, Leyla Gençer, Joan Sutherland e Montserrat Caballè. Protagonista di questa edizione è Marina Rebeka che del personaggio di Norma fa prevalere il cotè lirico su quello drammatico: il suo canto, caratterizzato da una bella qualità timbrica, è reso espressivo da ottimi legati e sonore mezzevoci. Filature preziose ben sostenute, impeccabile legato e padronanza dei fiati, il soprano lettone trova i momenti migliori quando dispiega la voce, rendendo il pathos dell’azione con il suono più che con l’accento, superficialmente scolpito; più donna innamorata, che ieratica presenza sacerdotale. Le dinamiche e le intenzioni espressive ricercate dalla cantante trovano piena realizzazione in sicura tecnica, mentre difettano negli accenti più espressivi, non scolpiti, dando fondamentalmente un’interpretazione lirica, non sempre incisiva e consona, nei passaggi più drammatici. S’impegna in Sediziose voci a rendere il fraseggio incisivo, attacca con una tinta “sombre”Casta diva, ben eseguita, ma non rapisce l’animo. Nella cabaletta Ah bello a me ritorna non suscita grandi brividi di passione e sensualità. In Oh! rimembranza! non sa essere pienamente evocativa, ma cresce in seguito nel duetto, rapinoso momento estatico. Sfoggia accenti patetici nel convincente Dormono entrambi, gareggiando nei duetti belcantistici con Adalgisa; si disimpegna nel Guerra, strage sterminio, per giungere al toccante finale Qual cor tradisti in cui sa essere tragica e patetica, in gara con Pollione. Sempre sicura tecnicamente domina le parti di agilità, senza assurgere a belcantistica rapinosità, facilitata da buona estensione vocale che le permette di rendere con sicurezza gli acuti più impervi. Ottima l’interpretazione di Vasilisa Berzhanskaya, Adalgisa dotata di uno strumento rimarchevole per volume e timbro, riuscendo e rendere le molteplici sfumature degli stati d’animo della giovane innamorata, pur fedele al suo giuramento di sacerdotessa e a Norma, per giungere a commuovere in profondità. Fascinoso l’attacco di Deh proteggi, rende gli accenti accorati, impreziositi da eleganti smorzandi, mentre la voce si espande. Nel duetto con Pollione il confronto si fa impari, per voce e fraseggio, e per gli acuti squillanti del mezzosoprano. E tu pure, è tutta vibrante di passione. Ciel così parlar attaccato pianissimo suona irresistibilmente splendido. In Sola, furtiva, al tempio è sognante ed evocativa, toccante in Mira, o Norma, eseguito su un filo di voce. Le due voci femminili gareggiano piacevolmente nei duetti, dove trovano sintonia e un equilibrio vocale ragguardevoli; sembra che raddoppiando il canto, meglio rendano la vocalità belcantistica. Carente Pollione di Freddie De Tommaso: vocalmente la tessitura da baritenore non sembra lo agevoli, viziando il canto con emissioni stentoree e riducendo il personaggio a scarso spessore umano, di una goffaggine oltre misura in scena, in preda ai più stereotipati gesti. Mostra voce “schiacciata” e senza squillo, non ben proiettata che fatica a espandersi. Deludente ingresso di Meco all’altar di Venere e cabaletta Me protegge me difende dalle variazioni pur di gusto, ma tutto il canto è di forza e slanciato, esecuzione che non raccoglie consensi. In Va’, crudele la tessitura meglio gli si adatta, ma l’interprete è sempre generico, trovando solo nel finale Ah! troppo tardi t’ho conosciuta accenti patetici e credibili. Scarsamente pregnante Oroveso di Michele Pertusi dal timbro logorato e dai suoni aperti, Ah!del Tebro senza profondità e rotondità, ma soprattutto manca l’imponenza e la ieraticità del sacerdote druidico. Clotilde di lusso di Laura Lolita Perešivana, dal bel timbro e linea di canto, con un’interpretazione espressiva, al servizio della parte. Corretto Flavio di Paolo Antognetti. Sul podio il Maestro Fabio Luisi sposa una direzione tutta impeto, suscitando un volume orchestrale spesso eccessivo senza un corrispettivo sbalzo drammatico. Guerra, guerra! È staccato a tempi garibaldini ma senza trascinante furore. E’ nelle pagine più intime e liriche, splendide melodie di cui Bellini cosparge l’opera, che il direttore si fa pregnante raggiungendo felici momenti espressivi, a scandire accompagnamenti ora profondamente lirici e idilliaci, come in Dormon entrambi e al terzetto No non volerli vittime, di struggente lirismo, oltre alle fascinose atmosfere dei preludi. Nuova la produzione che il Teatro alla Scala ha affidato a Olivier Py, scene e costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografia inguardabile di Ivo Bauchiero. Regia incapace di situarci di fronte alla vicenda narrata, caricando l’ambientazione di troppi simboli: dal risorgimentale al druidico, dalla sovrapposizione della vicenda a Medea (scritto, per chi non l’avesse compreso, anche su enormi specchi da camerino) ai bombardamenti della sala del Piermarini. E raddoppio in scena dei personaggi principali, con un insistito uso, all’eccesso, di mimi, utilizzo inane e spesso ridicolo (quei soldati che ballano con “asburgica virilità”…). Ambientazione in spazi montati su piattaforma girevole, che risultano l’unico elemento efficace e riuscito del lavoro di Puy, Inconsistente il lavoro sui cantanti (abbandonando spesso la protagonista su una sedia) che si muove fra prevedibili movimenti che non aggiungono molto alla drammaticità espressa dal canto, salvo quando dispiega le masse e pone il coro sulla scalinata. Successo caloroso per tutti, con ovazioni per Marina Rebeka e Vasilisa Berzhanskaya. Al Teatro alla Scala, recite fino al 17 luglio.
gF. Previtali Rosti