Il “va, pensiero” torna a risuonare all’Arena

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Nabucco, opera in quattro atti di Giuseppe Verdi, su libretto di Temistocle Solera basato su racconti biblici e sul dramma d’Anicet-Bougeois e Francis Cornu, rappresentato a Parigi nel 1836. Terza opera di Verdi, quella che stabilì l’imperitura fama di compositore operistico. Dopo l’infelicissima accoglienza di pubblico e critica riservata a Un giorno di regno, il compositore prese in considerazione di non più scrivere melodrammi. Come insegnante non gli era andata certo meglio: dalla Scuola di Musica di Busseto si era dimesso disgustato, mentre il Conservatorio di Milano l’aveva rifiutato. Donizetti e Bellini, in quel momento, erano compositori di fama internazionale e la fortuna che aveva premiato Oberto, Conte di San Bonifacio (prima opera), non sarebbe bastata per il futuro: Verdi era incerto su come continuare a guadagnarsi la vita a Milano.  Bartolomeo Merelli, impresario del Teatro alla Scala, aveva offerto al musicista un nuovo manoscritto intitolato Nabucodonosor, più tardi Nabucco, nella rielaborazione di fonti bibliche operata da Solera (librettista del suo primo lavoro). Già rifiutato dal compositore prussiano Otto Nicolai, Nabucodonosor segue le vicende del popolo ebreo nel momento in cui è assalito ed esiliato dalla patria dal re babilonese. I riferimenti riguardano in particolare il regno di Giuda e l’invasione di Nabucodonosor nel 587-686 a.C., quando il tempio di Gerusalemme fu saccheggiato, con la deportazione dei vinti in Babilonia, da dove saranno liberati cinquant’anni dopo. Anche Verdi, inizialmente, si rifiutò di musicare questo soggetto, pur trattenendo il manoscritto. Così descrive la sua decisione di accettare la nuova commissione: “Buttai il manoscritto sul tavolo, quasi violentemente, e lessi il libretto non una ma due o tre volte, così che il mattino seguente il mio cuore conosceva già perfettamente ogni personaggio”. In questo c’è sicuramente dell’esagerazione; la decisione fu più cauta e ponderata, fatta nell’arco di più giorni o forse mesi. Nabucco ebbe la prima rappresentazione il 9 marzo del 1842 alla Scala. La direzione del teatro milanese, per risparmiare sull’allestimento, riutilizzò scenari e costumi di un balletto andato in scena alcuni mesi prima, basato sullo stesso soggetto. Il commento di Verdi fu: con quest’opera, si può dire che la mia carriera operistica sia cominciata. E aveva pienamente ragione, se si pensa che Nabucco ebbe un successo tale da essere replicata nello stesso anno, solo alla Scala, per settantacinque volte! Il pubblico era pazzo d’entusiasmo, mentre la critica mostrò di apprezzare l’opera del nuovo compositore a un livello inferiore. L’opera assicurò a Verdi un successo che durò fino al ritiro del Maestro dalle scene, dopo altre sedici opere. A lungo gli storici della musica hanno perpetrato il mito del famoso “Va pensiero”, il coro cantato al terzo atto dagli schiavi ebrei, che il pubblico del tempo, rispondendo con fervore nazionalistico all’inno dello schiavo che desidera ardentemente la terra natia, chiedendo di replicarlo. Siccome i bis erano espressamente vietati dal governo di quel tempo, il gesto fu estremamente significativo. Ma fu un altro il pezzo a essere bissato, Immenso Jeovha, cantato dagli schiavi israeliti quale rendimento di grazie a Dio per aver salvato il suo popolo. Rimane però immutata l’importanza che il “Va, pensiero” ebbe nelle aspirazioni patriottiche, tanto da farlo diventare l’inno nazionale del Risorgimento. Il successo dell’opera si deve in parte anche all’eccellenza dei primi interpreti: il baritono Giorgio Ronconi quale Nabucco, il tenore Corrado Miraglia, Ismaele, il basso Prosper Derivis figlio, Zaccaria mentre Giuseppina Strepponi, futura signora Verdi, nei panni d’Abigaille mostrò un’organizzazione vocale già molto logorata. Nabucco è opera molto amata in Arena presentandosi in un nuovo allestimento di Stefano Poda che, come sua abitudine, firma regia, scene, costumi, luci e coreografia. La parte del protagonista Nabucco era sostenuta dal sempre più presente sulle scene italiane del baritono della Mongolia Amartuvshin Enkhbat pur senza un incisivo scavo della parola e validità dell’agire scenico, riesce a dare credibilità al personaggio. Trova i momenti migliori in quelli patetici, soprattutto nella scena del delirio, credibile nei momenti di pazzia e patetico nell’implorazione accorata nel Dio di Giuda, supplendo alle ragioni essenzialmente vocali di quei momenti in cui una vera regalità e imperiosità di comando sarebbe richiesta. Inutile dire che tutti gli sguardi erano per Anna Netrebko, Abigaille in veste di dark lady, che canta per la prima volta in Italia (ruolo che riprenderà alla Scala la prossima stagione), di cui si apprezza l’interpretazione variegata e incisiva di un fraseggio accorato e fremente. Il volume ha perso di ampiezza, anche se la voce “corre” sempre e, i suoni bassi, artefatti e poco risonanti, non aiutano a far campeggiare il personaggio. Vocalmente gli acuti non sono più svettanti e luminosi ma spinti e oscillanti mentre intatte le finezze dei preziosi smorzando e assottigliamenti di voce che arrivano al pianissimo. I momenti migliori nelle pagine liriche, dove fa valere un canto più raccolto e lineare mettendo in risalto l’elegante linea di canto. Un’ovazione l’accoglie al termine di Anch’io dischiuso un giorno, assolutamente commovente. Impavida nel Salgo già del trono aurato, di buone intenzioni, ma cui fa difetto l’ampiezza vocale, l’’imperiosità di suono connaturati alla protervia e ambiziosa regalità del personaggio, anche se il fraseggio non manca mai di essere incisivo, drammaticamente straziata dal rimorso e dal dolore, accompagnata da un sommesso accompagnamento orchestrale, chiude la serata con una morte patetica. Christian van Horn presta a Zaccaria una voce di basso di bel timbro e colore, impeccabile nella tecnica d’immascheramento degli acuti, non forza in basso il suono per renderlo più corposo. Di efficacissima presenza scenica, riesce interprete ieratico nella parte di un sommo sacerdote, la preghiera, resa in toni sommessi, regala uno dei momenti di forte intensità, ma tutta la sua prestazione era di rilievo. Ismaele convincente di Galeano Salas, dal baldanzoso ingresso che non si sperde poi in un’interpretazione sui generis. Fenena era Francesca di Sauro, voce calda e timbrata di mezzosoprano, inizia con qualche incertezza di volume per trovare poi piena risonanza vocale; si espande nella sua aria, mettendo in mostra la bellezza dello strumento vocale, e sfuma e smorza, raggiungendo il momento più intenso. Efficace Gran Sacerdote di Gabriele Sagona, dai suoni timbrati e rotondi. Abdallo discreto, dal timbro e volume chiari, di Carlo Bosi e corretta Anna di Daniela Cappiello. Il Coro la fa da padrone in Nabucco, a conferma della coralità dell’opera più che dei singoli. Centrale presenza, e non solo nel celeberrimo “Va, pensiero”, il Coro Arena di Verona dà ennesima dimostrazione della maestria che lo contraddistingue: mirabile esecuzione – soffio d’ipnotica magia che fa vibrare l’intera cavea – produce nell’aria celeberrima, isolato nella spoglia nudità della scena e messo in risalto dalle luci. Sul podio, alla guida dell’Orchestra Fondazione Arena, il Maestro Pinchas Steinberg che tornava a Verona dopo ventisei anni, si è presentato con l’immutato piglio che lo contraddistingue, imprimendo energia alla sinfonia, con gesto direttoriale sintetico quanto espressivo ed evocativo. Ha articolato con vigorosa ieraticità il flusso sonoro creando una tensione magnetica che avvolge lo spettatore con una morbidezza orchestrale dalle tinte accorate alternate alle drammatiche, a suscitare vicende e stati d’animo. Intensa la perorazione “religiosa” iniziale, profondamente autentica. Il canto di Ismaele, tenore fiero nella sua giovanile baldanza e quello di Zaccaria avvolgono lo spazio areniano. Ecco poi Fenena, che ammalia con il timbro brunito per passare allo “stupore e alla sorpresa” fisicamente colti in orchestra, all’ingresso vocale di Abigaille.  Il direttore traduce la partitura in pastosa esecuzione, lancinante grido di un popolo prigioniero, non dimenticando una nostalgica e commossa rimembranza. Qualche slittamento tra podio e palcoscenico non inficia un’esecuzione coinvolgente. Nabucco proiettato nel futuro, nell’allestimento del visionario Poda che fonda nella frase iniziale che scorre dalla lunga scalinata centrale “Forsan et haec olim meminisse iuvabit” (forse ricorderemo, un giorno, con piacere anche cose come queste…) frase che Virgilio mette in bocca a Enea rivolgendosi ai compagni nelle avversità. Ambientazione che mescola tanti elementi, a volte troppi per una lineare e omogenea comprensione, tra schermidori in moltiplicati duelli, stuolo di seguaci dark, montaggio di simil missile. Poda sciorina una regia mai banale, ma non sempre coerente, sul vasto palcoscenico areniano, animando la serata più con movimenti di popoli in eterno conflitto che con la scenografia, limitata (oltre alla scalinata) a due grandi strutture luminose che ruotano indipendenti per tutta la serata per riunirsi in un pacifico abbraccio nel finale, emblema di popoli eternamente divisi alfine abbracciati. Impressionante la diagonale dei mimi iniziale, anche se alla lunga la loro presenza risulta troppo insistita e presente, fastidiosamente a scapito, in certi momenti, della musica. Una sfida tecnica per le soluzioni sicuramente inedite adottate, con vestiti a led degli oltre 3000 costumi e la presenza in scena di cospicue masse. Originali i costumi, in latex per i personaggi principale e disegnati per i due popoli. Caloroso successo, con ovazioni per Anna Netrebko, Amartuvshin Enkhbat e, ovviamente, per Pinchas Steinberg.

All’Arena di Verona, recita del 24 luglio.

gF. Previtali Rosti

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