Dire Aida è dire Arena di Verona, tanta è la simbiosi tra l’imponente Anfiteatro romano e la musica di Giuseppe Verdi. Considerarla come l’opera regina del cartellone veronese, torna immancabilmente ogni anno dopo essere andata in scena nell’edizione storica 1913. Inutile aggiungere che è l’opera più amata dal pubblico. Giuseppe Verdi scrisse ventisei opere, alcune famosissime e altre raramente rappresentate oggigiorno, soprattutto quelle del periodo giovanile, mentre Aida può vantarsi di essere una delle tre opere più conosciute mai state scritte, assieme a Carmen e La Bohème. Spesso i critici musicali si sono sbizzarriti a paragonare l’ultima parte della produzione verdiana come la più importante; a considerare capolavori le due opere che seguirono Aida, Otello (1887) e Falstaff (1893, quando Verdi aveva ottanta anni), mettendo in risalto l’enorme progresso di scrittura che le separano dalla tanto apprezzata trilogia popolare. Parte di quest’evoluzione è ascritta al compositore dopo che avrebbe adottato “alcune idee” di Richard Wagner, specialmente dalle già rappresentate Walkiria e Oro del Reno. E allora ci si sforza di trovare elementi wagneriani in Aida, quale l’abbandono, nella frase musicale, di una bilanciata simmetria o il fluire del recitativo nell’aria senza soluzione di continuità e non con il netto stacco che prima lo marcava. O ancora per aver introdotto il leitmotiv, ossia il tema musicale che caratterizza inequivocabilmente un personaggio per tutta la durata della partitura. Al suo apparire sui palcoscenici europei e americani, il commento più frequente in cui ci si poteva imbattere era quello che fosse un’opera wagneriana! Aida è wagneriana, certo, se si paragona al Verdi giovanile, ma accostata a un’opera wagneriana è semplicemente verdiana e assolutamente italiana. La storia di come Ismail Pacha, Khedive d’Egitto commissionasse a Verdi un lavoro per il nuovo Teatro d’opera del Cairo (non l’apertura, come erroneamente si trova citato) inaugurato nel 1869 è conosciuta. Il Maestro inizialmente rifiutò, ma persuaso dall’amico Camille du Locle, riconsiderò la proposta. Il soggetto fu suggerito al Khedive dall’egittologo Mariette. Du Locle, precedente direttore dell’Opéra Comique, vistando Verdi a Busseto scrisse un testo in prosa francese, scena dopo scena sotto gli occhi attenti del compositore (che suggerì lui stesso la doppia scena del finale dell’opera), tradotto poi in versi italiani dal librettista Antonio Ghislanzoni. Mariette mise a disposizione la sua sconfinata conoscenza archeologica per la produzione del nuovo allestimento: fece rinascere la vita del tempo dei faraoni, ricostruì l’antica Tebe, Memphis e il Tempio di Ftha; disegnò i costumi e creò le scene. E’ sotto queste fauste circostanze che la nuova opera di Verdi fu prodotta: Aida andò in scena il 24 dicembre 1871 e il successo fu sensazionale. Altrettanto entusiastica l’accoglienza alla Scala di Milano, l’8 febbraio 1872; il Maestro fu chiamato alla ribalta trentadue volte e omaggiato di un astuccio in velluto fregiato in oro, con lo stemma di Milano e il nome di Aida in oro. Dentro, una pergamena accompagnava uno scettro simbolico in avorio con una stella di brillanti, intrecciato un ramo d’alloro in smalto a smeraldi con un nastro di smalto con il nome di Verdi e quello di Aida in pietre preziose. All’Arena di Verona il capolavoro verdiano andò in scena per la prima volta nel 1913. Innumerevoli le edizioni che seguirono, sfoggiando locandine da brivido alla sola lettura, con i più importanti direttori d’orchestra Serafin, Guarnieri, Gavazzeni, Von Matacic e stelle di prima grandezza fra i cantanti (citandone solo alcuni): Arangi Lombardi, Caniglia, Maria (Meneghini) Callas, Cerquetti, Stella, Leontyne Price, Leyla Gençer, Martina Arroyo e Dimitrova nei panni di Aida e Zenatello, Dolci, Masini, Del Monaco, Corelli, Bergonzi, Richard Tucker e Domingo quali Radames, protagonisti dell’opera. Il Maestro Daniel Oren, salutato da un affettuoso applauso all’apparire, è navigato conoscitore della partitura e non delude le attese. La sua direzione, dopo le raffinatezze e i pianissimi dell’ouverture, mostra l’intensità di un aspetto vitale e sanguigno, a tutto tondo: una tavolozza di colori pastosi e pieni, distribuita con pennellate melodrammatiche e appassionate, sfruttando la dinamica orchestrale nell’intera ampiezza. Calore e affetto trovavano esternazioni sempre più calorose e convinte, allo svelarsi delle intenzioni musicali del direttore, intento a porre in rilievo particolari normalmente sottaciuti dello spartito. Splendidi i momenti “intimi” e notturni dell’opera, rifiniti e cesellati. Concertatore navigato e conoscitore delle esigenze del palcoscenico, sostiene sempre i cantanti, valorizzandone le voci. Buona la resa dell’Orchestra dell’Arena, con il Coro areniano in particolare stato di grazia, ha fatto provare brividi, con quegli interventi eterei e impalpabili nei momenti fuori scena. I cantanti: Aleksandra Kurzak la migliore, solida e sicura professionista, mai in ambasce di fronte alla tessitura vocale, Aida dal bel volto nobile, espressiva nella resa interpretativa. Voce di buon timbro e colore, che si espande e smorza, mettendo in mostra “centri” sonori e bel registro basso. Qualche problema invece negli acuti, non sempre raggiunti e tenuti in maniera irreprensibile che finivano per stimbrarsi. Ritorna vincitor segnato da incisivo fraseggio d’accenti patetici e accorati, che si traducono in efficace partecipazione scenica. Attacchi di voce puliti e sognanti filature portano a una magica chiusa dell’aria, su un filo di voce. Numi pietà di forte intensità emotiva. In O Patria mia travasa tutto il rimpianto e la malinconica del suo cuore, con fascinante filatura di voce finale. Commovente nel duetto finale. Radames di Roberto Alagna si fa apprezzare per un fraseggio intimo, uscendo dal cliché precostituito del condottiero baldanzosamente eroico declinandolo in maniera misurata e matura, quasi piagata, di partecipe interpretazione, apportando raffinatezze alla caratterizzazione del personaggio. Vocalmente è sembrato più volte in affanno: Celeste Aida da dita incrociate, dove la voce, impegnata a “freddo” mostrava segni di sforzo, con una chiusa sbroccata negli acuti usurati, pur sempre espressivi. Appassionato e fiero nell’intervento con Amonastro, trova strazianti accenti nel finale La fatal pietra sovra me si chiuse. Apprezzabile Amneris di Agnieszka Rehlis, voce non particolarmente voluminosa, mezzosoprano dal colore chiaro che acquista maggior rotondità nel seguito della rappresentazione, in scena bistrata e regale, è una sagace attrice. Bene nel duetto con Aida anche se non ha gran risalto di bassi. Il momento migliore nel IV atto, L’aborrita rivale a me sfuggia dove, senza poter contare su una dovizia di suono riesce a far risaltare la drammaticità del momento che sta vivendo. Youngjun Park, Amonasro s’impegna in smorzature, ma poco risuona nel registro basso. E’ appassionato nel duetto con Aida. Ramfis dal bel timbro rotondo e sonoro del coreano Simon Lim, dagli acuti sonori e squillanti e di precisa dizione. Il georgiano Ramaz Chikviladze era un pessimo Re, di voce intubata e di mediocre dizione, privo di ieraticità e spessore vocale. Molto bravo Riccardo Rados quale Messaggero e Francesca Maionchi era una credibile Sacerdotessa. Non scalda il cuore del pubblico la visionaria interpretazione di Stefano Poda, nelle vesti di regista, scenografo, costumista, coreografo e responsabile luci, che al netto della capacità di muovere le masse, non riesce che a momenti suscitare o anche solo evocare in maniera sognante i momenti affettivi che costellano la partitura. Regia che imprime allo spettacolo (come nel recente Nabucco) una peculiare firma: movimenti mai artefatti e coreografia ficcante di ginnasticali ondeggiamenti e saliscendi di braccia, ma le espressioni dei mimi sono ormai stereotipate. Messinscena quasi inesistente se non per quel gran simbolo della mano, che s’apre e chiude. Marcia trionfale risolta con mimi argentei e luci, su pavimento vitreo a scacchiera, in coreografia di saltelli e battimani e sferragliar di costumi aggiunto alla musica. Sontuosi anche se non sempre originalissimi i costumi, soprattutto dei protagonisti. In un momento d’imperante e d’esasperata tecnologia, si rimpiange la magia di un artigianato ormai raro, anche se oleografico e stucchevolmente farlocco, tanto più sognante e vitale oggi in piena epoca digitale. Teatrale chiusura dello spettacolo, con tuono finale e lampi (veri) in un cielo che prometteva qualche goccia di poggia, incivilmente affrettando all’uscita spettatori non travolti dalla magia dell’opera. Quelli rimasti hanno tributato un caloroso tributo a tutta la compagnia, principalmente ad Aleksandra Kurzak e Roberto Alagna. Un’ovazione per il Maestro Oren. Arena di Verona, recita del 27 luglio.
gF. Previtali Rosti

