A Vercelli, lo sanno tutti, ci sono le risaie. Da qualche anno però, dal loro ritorno dall’Australia (una fortuna per tutti noi amanti del loro teatro), Vercelli fa anche rima con Cuocolo Bosetti, la compagnia, il duo che con freschezza e originalità crea piccoli mondi, spazi di condivisione per poche persone, anime con le cuffie oppure mini bolle per pochi corpi e pochi occhi ad indagarsi dentro. Renato e Roberta hanno un vissuto e ogni volta riescono nell’impresa di rimetterlo prima su carta poi nelle parole e nelle atmosfere che creano con la magia delle cose minute o solamente di una sospensione, di un silenzio, di un lascito, una parentesi che, nei suoi chiaroscuri, illumina di senso il nostro tempo insieme in quello spazio, interiore più che fisico, che chiamiamo comunemente teatro. I CB hanno sempre trasformato i luoghi facendoli diventare altro, modulandoli, modellandoli, estraniandoli, facendoli diventare malleabili ai voleri del loro spirito, vagabondo, ondivago, senza regole, certamente poetico, non incasellabile, sfuggevole alle definizioni. E da cinque anni si sono inventati un festival, “Ogni luogo è un teatro” (la direzione artistica oltre che dei CB è condivisa anche con Teatro di Dioniso e Arteinscacco), il cui titolo riassume in poche battute il fulcro del loro discorso e del loro ragionamento visto che abbiamo seguito i loro spettacoli in appartamenti, dentro letti matrimoniali, in percorsi labirintici, a tavola cenando, legati e bendati, in un parco o nella metropolitana. La base della rassegna è casa loro che li rispecchia: è infatti accogliente e solare, bianca dentro perché pura, mai ingenua, ma aperta all’abbraccio, con gli occhi mossi e brillanti di curiosità, i colori delle costole dei libri come pennellate di Pollock.
Qui abbiamo assistito a due performance particolari, sia per i luoghi dove si sono dipanate, il primo in macchina partendo da casa loro in tre più il guidatore-attore, il secondo in salotto in una situazione casalinga e rilassata, tra amici, una comunità che si ritrova, che si stringe contro il freddo (e le zanzare, queste sì reali) là fuori. Il sottotitolo, anche questo azzeccatissimo, è “Il festival che cammina” perché spazia, gira, si intrufola dai musei alle Farm, dai parcheggi ai vicoli. Sulla locandina la poltrona che fa focolare con sopra un barboncino bianco, il loro amato Nuvola, la leggiadria di una donna con un abito a fiori, presumibilmente Roberta, che ha in testa un annaffiatoio che spruzza al posto dell’acqua (come in un gioco alla Folon o alla Magritte dove viene ribaltata la causa e l’effetto) i chicchi di riso, due lampadari che calano dall’alto e diverse astronavi per venirci a rapire, a trovare, a invadere oppure anche loro a godersi il pulviscolo del teatro.
Partendo dalla strada dei Cuocolo Bosetti (la casa è quella della famiglia di Roberta mentre Renato è genovese) un Caronte-Cicerone si farà guida a tre anime alla volta per condurci (in un viaggio tra rotonde, parcheggi, palazzoni e tangenziali) con la sua auto, tra riflessioni esistenziali, fin dentro il midollo del tempo, della vita, del cambiamento che fa paura. L’inquietudine di sottofondo è un sentimento strisciante fin dall’inizio: “Andare in macchina con uno sconosciuto è un atto di fiducia” si presenta il nostro autista purgatoriale, angelico e affabile quanto demoniaco. Stiamo cercando di inseguire, o rimettere al loro giusto posto “L’ordine delle cose” (prod. Dioniso e Arteinscacco, Livio Ghisio e Annalisa Canetto), creando un percorso sensoriale, visivo, immaginario tra l’asfalto e i ricordi, tra il cemento e le strade con la nostalgia sentimento dei senzienti. La voce flautata e vellutata della guida ci tiene sulle spine e ci parla dello scorrere del tempo: “La vita è un lunghissimo elenco di appuntamenti mancati”. Siamo on the road su queste carreggiate, tra questi tanti luoghi d’archeologia industriale sparsi tra le periferie e i campi di riso che si perdono all’orizzonte già scuro in queste giornate che vanno accorciandosi come la nostra vita mentre la stiamo vivendo. Più viviamo e più stiamo morendo ed è in questa dicotomia e ossimoro che si installa il nostro presente che respira del tanto passato occorsoci e immagina il futuro che ancora non è stato; in questo stallo, tirati indietro dal già stato e proiettati verso l’incognita dell’ignoto, non riusciamo a vivere appieno il tempo concessoci. Passiamo centri commerciali con le insegne dalle luci tristi, parchi, chiese dalle architetture mestamente moderne, parcheggi deserti, incrociando soltanto anziani con i cani al guinzaglio, entrambi dalla falcata stanca. Ogni tanto ci fermiamo in luoghi di sogno e apparizioni come se qualcosa tornasse a manifestarsi e a bussarci dalla memoria, facesse capolino al noi che siamo diventati e che ha soffocato ciò che era nella polvere dei giorni andati. Sentiamo tutta la solitudine di fabbriche depresse e lasciate marcire, ci arriva come uno schiaffo l’abbandono di un borgo contadino che ci rende insicuri tra una ballata dei Depeche Mode e la scritta dal sapore dantesco, ma ribaltata nel significato, sul muro: “Portate un po’ di speranza o voi ch’entrate”. Lancinante: “Perché ricordiamo il passato e non il futuro?” ci chiede; e rimaniamo senza risposte e mentre chiudiamo lo sportello dell’auto un pezzetto di noi rimane sulla Ford Fiesta che aleggia mentre diventa piccola in fondo alla strada prima di sparire dietro l’angolo.
Ancora sulla strada, come avrebbe detto Kerouac, si svolge il racconto, tra parole e note schitarrate, de “La città senza nome” dei Sagapò, Lucas Joaquin Da Tos e Matteo Campagnol, che ci porta nella profonda Argentina, nella pampa di fango e mosquitos in una narrazione epica dove sono sempre i più deboli e i più poveri a soccombere alle angherie della stupidità del potere. E così, siamo negli anni ’70, mentre infuria la dittatura che fa volare i desaparecidos sopra il Mar de la Plata, in un paesino dimenticato va in scena “una storia sbagliata”, come la ballata di De Andrè che viene più volte arpeggiata, che ha il sapore di Bolano o Galeano, di Sepulveda o Pino Cacucci. Un racconto un po’ stereotipato di miniere, di gauchos, di asado e cerveza, di donna indio bellissime delle quali innamorarsi perdutamente. Nel retrogusto prendono forma e affiorano anche “I racconti della motocicletta” del Che. Ma tutto il preambolo della descrizione polverosa degli abitanti avventurosi della minuscola cittadina confluisce e prende senso nella rivolta di Davide, i poveri cittadini, contro Golia, l’autorità costituita di sergenti e soldati che hanno chiuso la miniera e adesso vogliono approfittare di donne, cibo e abuso di potere. I poveri riescono a vincere la battaglia, in questa favola dal sapore arcaico, ma sappiamo che i soldati poi sarebbero tornati e si sarebbero presi, con gli interessi della vendetta, quello che pensavano essere loro di diritto. Una fiaba amara come la vita di alcune popolazioni strette, schiacciate, soffocate dalle mancanze, dalla miseria, dall’impossibilità di difendersi.
Tommaso Chimenti
