25 marzo, 2012

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Terza puntata, "Il Ladro" di Alfred Hitchcock, "Anche l'onestà può diventare colpevole".



IL LADRO 
(the wrong man)


USA, 1956 105' B/N


REGIA : ALFRED HITCHCOCK

INTERPRETI : HENRY FONDA, VERA MILES, ANTHONY QUAYLE, CHARLES COOPER, HAROLD J. STONE

EDIZIONE DVD : Sì, distribuito da WARNER HOME VIDEO (edizione estera con traccia audio in italiano)

A chi non è capitato, almeno una volta nella vita, di essere scambiato per qualcun altro?  Nel caso di Emmanuel "Manny" Balestrero, contrabbassista in un locale notturno, le conseguenze di questo errore si riveleranno tragiche. Manny, uomo onesto e appassionato al proprio lavoro, vive insieme alla moglie e ai due figlioletti un'esistenza relativamente tranquilla e felice; l'unico problema è una perenne mancanza di denaro, alla quale la coppia riesce ad ovviare con un approccio positivo ed ottimista nei confronti della vita. I guai cominciano quando Manny si reca in un'agenzia di assicurazioni per chiedere un prestito come anticipo sulla polizza della moglie, bisognosa di cure mediche costose. Scambiato dalle impiegate dell'assicurazione per il rapinatore che ha messo a segno diversi colpi nel quartiere, viene denunciato e la sera stessa arrestato dalla polizia. E' l'inizio di un'odissea che porterà Manny fino al processo, in mezzo a disagi ed umiliazioni di ogni tipo. La moglie Rose, nel frattempo, duramente provata dalla situazione, crolla e finisce ricoverata in clinica per un grave esaurimento nervoso che la porta alle soglie della pazzia. Incastrato da circostanze incredibilmente sfortunate -per vari motivi tutte le persone che potrebbero scagionarlo risultano irreperibili; la perizia calligrafica sembra inchiodarlo; i testimoni oculari delle rapine concordano nel riconoscerlo come il delinquente- nonostante l'assistenza di un avvocato tenace e comprensivo, Manny sembra destinato ad una sicura condanna; solo un errore del vero malvivente (neanche troppo somigliante al nostro protagonista), che gli costa la cattura in un negozio di generi alimentari, rimetterà le cose a posto.

Tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto, è il film più umile, asciutto, anti-spettacolare e (solo apparentemente) dimesso del regista, un episodio del tutto anomalo e per questo interessante nell'itinerario artistico di "Hitch", distante anni luce dalle super produzioni  giallo/thriller hollywoodiane che verranno e che garantiranno al maestro l'etichetta di "mago del brivido". Sono le tonalità del grigio e gli accordi in minore le coordinate sensoriali dominanti in questa piccola grande opera, girata senza orpelli e a tratti quasi neorealista, attraversata da un'atmosfera  mesta e pessimista che impone un'assoluta austerità, sottolineata dalla rinuncia di Hitchcock ai suoi amati "cameos" (il regista, molto eloquentemente, si concede soltanto un breve prologo introduttivo nel quale avverte gli spettatori che in questo film non ricorrerà ai consueti registri narrativi funzionali alla creazione della tipica atmosfera hitchcockiana, bensì, trattandosi di una storia tratta da un caso vero, si limiterà ad attenersi alla realtà pura e semplice, di per sé di gran lunga superiore a qualunque sforzo di immaginazione).
C'è poco da spettacolarizzare, in effetti, in questa desolante e sconsolata cronaca del calvario di un uomo qualunque che di punto in bianco si vede stravolgere la propria esistenza senza una ragione comprensibile: è il CASO, l'agente autarchico per eccellenza, l'eterna variabile incalcolabile, a muovere gli ingranaggi della vita. Non c'è teodicea o ratio che tenga di fronte all'ingiustificabile e inspiegabile punizione che arriva a colpire un innocente: il caso dà, il caso toglie. In mezzo sta l'uomo, in balia degli elementi, spettatore  impotente (purtroppo) della propria vita, partecipante ad un gioco di cui non gli è concesso conoscere le regole.


A dare forma e sostanza alla visione hitchcockiana della condizione umana provvede con una formidabile prova Henry Fonda, abilissimo, nonostante fosse già un attore affermato, ad annullarsi fino ad assumere le sembianze dell' "uomo della porta accanto" attraverso una recitazione essenziale, misurata, asciutta, che lascia spesso agli sguardi il compito di esprimere ciò che nessuna parola potrebbe. Il suo Manny è un onest'uomo qualunque credibilissimo, nel quale diventa facile identificarsi (come negare che il senso di colpa, la paura della colpa, è uno dei tormenti universali dell'uomo? Rose impazzisce schiacciata da esso e lo stesso Hitchcock sembra particolarmente ossessionato dall'argomento,il quale ricorre come tema portante in altri suoi film, "VERTIGO" e "IO TI SALVERO' " su tutti), specie per chi ha vissuto esperienze analoghe anche se in scala ridotta; essere accusati ingiustamente, magari per piccole cose, è del resto un'esperienza piuttosto comune. Al cospetto del caso, nemmeno la certezza di compiere quotidianamente il proprio dovere e di procedere quindi nel percorso della rettitudine morale, offre all'uomo garanzie di riparo dalla sventura; in quest'ottica, assumono una forte valenza critica ed ironica (almeno agli occhi di chi scrive), i vari riferimenti alla religione, retaggi della robusta educazione cattolica -gesuita- ricevuta dal giovane Hitchcock: la madre che raccomanda a Manny di pregare per il processo; Manny che segue il dibattimento rigirandosi un rosario tra le mani, lo stesso che gli viene pietosamente lasciato dalla guardia carceraria al momento di entrare in prigione; la testimone d'accusa, che in una sorta di inquietante imitazione del bacio di Giuda a Cristo si reca a toccare il colpevole in aula, su richiesta del pubblico ministero... è il protagonista stesso a mettere in chiaro le cose quando, alla madre che lo esorta a pregare Dio affinché gli conceda la forza di affrontare il processo, replica laconicamente: "NON VEDO CHI MI POTRA' AIUTARE, SE NON AVRO' UN PO' DI FORTUNA!" E la fortuna (forse l'intervento di Dio, secondo il regista? Il dubbio in merito all'opinione di Hitch rimane, dato che alla scena dell'arresto del criminale antepone l'inquadratura di un'immagine del Cristo che Manny osserva con sguardo supplice) arriva subito dopo, con la maldestra rapina che costa la libertà al bandito. E' sempre la casualità dunque, in una sorta di processo circolare, che così come aveva dato origine all'apertura del cerchio (Manny scambiato per il bandito dalle impiegate dell'assicurazione), perviene alla sua chiusura (il "cattivo" compie un errore, si fa catturare da un negoziante, viene poi riconosciuto come il vero colpevole dallo stesso poliziotto che aveva arrestato Manny, fine dell'incubo). Seppure spettino dunque al caso le responsabilità -nel bene ma soprattutto nel male- maggiori in questa vicenda, non possono però venir meno le mancanze e la complicità della giustizia da un lato e delle persone comuni (testimoni d'accusa soprattutto) dall'altro. Quali garanzie di equità e affidabilità offre un sistema giudiziario che istruisce un processo "a diritto rovesciato", dove l'onere della prova spetta alla difesa anziché all'accusa (sì, perché, nonostante siano fallaci, tutte le argomentazioni dell'accusa paiono convincenti, e questo obbliga l'innocente a produrre vere prove contrarie, atte a neutralizzare quelle false)? Quale credibilità può vantare un corpo di polizia che dà prova di tale superficialità nel condurre le indagini (la ridicola perizia calligrafia, gli approssimativi confronti tra indiziati e testimoni, le umilianti passerelle del sospetto nei luoghi del delitto)? Quale pofessionalità dimostra un pubblico ministero che riporta come prove schiaccianti, travisandole completamente, le dichiarazioni rese dall'imputato (l'innocente passione di Manny per le corse dei cavalli diventa automaticamente un pretesto per insinuare che sia un giocatore incallito con ingenti debiti verso gli allibratori)? Se la macchina della giustizia assume qui gli inquietanti connotati del leviatano (a quale prezzo la giustizia?), non va certo meglio se ci si sofferma sul comportamento delle persone comuni: di quanta incoscienza e superficialità bisogna essere forniti, per accusare un uomo dopo averlo riconosciuto -una delle impiegate dell'agenzia- senza neanche averlo guardato (e non che gli altri testimoni abbiano proceduto ad un'identificazione tanto meno frettolosa)? Di quale autorità morale può godere un giurato che si rivolge in maniera tanto sprezzante e faziosa verso la Corte (circostanza abilmente sfruttata dal difensore di Manny per chiedere ed ottenere la ricusazione della giuria)? Con quale coraggio le testimoni potranno guardare Manny negli occhi (e infatti non ci riescono, liquidando il momento imbarazzante con finto sdegno) dopo aver appreso la verità? Come mai non hanno nemmeno la decenza di pronunciare due parole di scusa? Non c'è nulla che possa indurre all'ottimismo, in questa storia: tutto si risolve positivamente, ancora una volta, soltanto grazie al caso e non certo all'uomo! Quante probabilità di uscirne indenne avrebbe avuto Manny, pur con tutta la volontà e la forza di questo mondo, se il vero colpevole non fosse stato catturato e avesse dovuto quindi contare SOLO sulle proprie risorse? Sta proprio in questa amara constatazione il cuore del messaggio pessimistico di fondo trasmesso dal film: l'uomo non è padrone del proprio destino. Coerentemente a tale assunto, pur ritrovandosi costretto, data la volontà di attenersi ai fatti, a raccontare il lieto fine della storia, Hitchcock decide di affidare il finale ad un'asettica didascalia di chiusura, priva persino del commento sonoro trionfalistico di prassi. E' questa l'esposizione più fedele ed efficace di una conclusione felice solo formalmente: un'esperienza così terribile non può non lasciare strascichi psicologici permanenti in colui che l'ha vissuta e non basta un'assoluzione a cancellare le umiliazioni, i soprusi e le sofferenze patite da una mente che porta ormai impresso a fuoco il marchio dell'ingiustizia, come testimoniano gli occhi smarriti, stremati, increduli di Manny anche dopo aver saputo che il suo supplizio è finito (in quella che è forse la scena più intensa del film, il nostro si ritrova faccia a faccia col suo "carnefice", al quale riesce solo a dar la colpa dell'esaurimento della moglie, senza particolare enfasi né rancore, tale è lo stato di prostrazione in cui si trova Manny).
Viene spontaneo, almeno per lo spettatore italiano, stabilire un parallelo tra il film e quello che nella memoria collettiva del Paese rimane forse l'esempio più celebre di malagiustizia: il caso Tortora. Per un grossolano errore di valutazione nel corso di un'indagine su fatti di camorra (durante un sopralluogo in casa di un camorrista, viene rinvenuta un'agenda telefonica con su scritto, accanto ad un numero telefonico, il nome "TORTONA", poi scambiato per "TORTORA"), avviata sulla base delle dichiarazioni mendaci di alcuni pentiti, il noto giornalista e conduttore ligure fu arrestato, in un clima da gogna mediatica e nell'incredulità generale, il 17 giugno 1983, con l'accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico; un'agendina col nome storpiato, alcune dichiarazioni di pentiti: tutti qua gli indizi sui quali si resse l'impianto accusatorio. Anche in questa circostanza fu il caso, agevolato dall'inefficienza della giustizia e dal pregiudizio della gente (semplicemente impressionante il clima giustizialista che pervase gran parte dell'opinione pubblica e della stampa dell'epoca), a sparigliare le carte di una vita intera, purtroppo in modo irreversibile : solo più di tre anni dopo, il 15 settembre 1986, arrivò l'assoluzione in appello per un uomo che aveva subito sette mesi di carcere e una condanna in primo grado a dieci anni di reclusione. Ma quello che il 20 Febbraio 1987 si ripresenta al pubblico televisivo con la sua amata "PORTOBELLO" è un individuo quasi irriconoscibile: invecchiato e recante nello sguardo i segni di una sofferenza indicibile, Tortora è la personificazione della sua stessa tragedia. Gli occhi acquosi di Manny assomigliano fin troppo nettamente a quelli immortalati in primo piano dalla telecamera di Raiuno quella sera di febbraio, e sono occhi che dichiarano a chiare lettere che nulla più sarà come prima. Sulla vicenda Tortora il regista Maurizio Zaccaro ha girato nel 1999 il discreto film "UN UOMO PERBENE ", con Michele Placido nei panni del protagonista.

Francesco Vignaroli 

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