11 giugno, 2014

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Recensione 21: "THE KILLER"


THE KILLER                         HONG KONG  1989  106’  COLORE
(Die xue shuang xiong)

REGIA: JOHN WOO

INTERPRETI: CHOW YUN-FAT, DANNY LEE, SALLY YEH, CHU KONG

EDIZIONE DVD: SI’, distribuito da BIM/ 20TH CENTURY FOX HOME ENTERTAINMENT

Dopo aver accidentalmente provocato la cecità di una cantante nel corso di una sparatoria, il killer Jeffrey (Chow), roso dal rimorso, medita di chiudere con la propria professione decidendo di prendersi cura della ragazza; accetterà un ultimo incarico solo per procurarsi il denaro necessario al trapianto di cornee che potrebbe ridare la vista alla sua vittima, che nel frattempo, ignara della vera identità di Jeffrey, si è innamorata di lui; l’iniziale tradimento di un amico –che poi si riscatterà- e soprattutto la caccia scatenatagli contro dal boss che gli ha commissionato l’ultimo delitto, deciso ad eliminarlo in quanto potenziale testimone scomodo, condurranno Jeffrey verso un’epica resa dei conti col destino (all’interno di una chiesa!), per affrontare la quale troverà un insperato alleato nell’ispettore Lee, l’ostinato poliziotto che lo sta braccando, rimasto colpito dalla sua nobiltà d’animo.




Il capolavoro del primo e migliore John Woo (cioè quello antecedente allo sbarco ad Hollywood), che porta a compimento il discorso iniziato nel dittico di A Better Tomorrow, vero e proprio punto di svolta per il cinema di Hong Kong, in cui avviene il passaggio dal classico wuxiapian -il cinema di “cappa e spada”- al noir iperrealista di ambientazione metropolitana, grazie alle intuizioni di Woo e del produttore e regista Tsui Hark, autori di uno strappo alla tradizione hongkonghese paragonabile a quello operato da Bruce Lee all’inizio degli anni ’70 e che ha in Jean Pierre Melville e Sam Peckinpah i principali ispiratori. Insieme al grande Wong Kar-Wai (regista del capolavoro In The Mood for Love), Tsui Hark e John Woo hanno rivitalizzato –ciascuno a modo suo- l’intramontabile scuola di Hong Kong, capace di conservare nei decenni la propria identità e autonomia artistica malgrado le alterne vicissitudini politiche e salita finalmente alla ribalta mondiale del cinema d’autore.
The Killer ripropone, in una sorta di continuità ideologica con le due pellicole precedenti, tutti i temi cari al regista: l’amicizia, il sacrificio, l’onore, la violenza come atto d’eroismo inevitabile, il bisogno di redenzione, il sentimentalismo, il rimpianto del tempo perduto, il confronto tra il codice etico della vecchia mala e l’amoralità di quella attuale, la lotta impari contro un mondo irrimediabilmente degradato. I personaggi, ben lungi dal manicheismo semplicistico e piatto che caratterizza buona parte dei blockbuster d’azione americani, sono figure a tutto tondo complesse e piene di contraddizioni, cioè di impalpabili sfumature di grigio che conferiscono loro spessore e umanità, come nel caso dell’ispettore Lee, un uomo combattuto tra il proprio dovere e l’ammirazione per la sua “preda”, frutto della graduale scoperta di un’affinità ideologica ed empatica che lo porta, segretamente, a parteggiare per Jeffrey fino a decidere di unirsi a lui nella “missione impossibile”: sconfiggere –in due- un’intera gang di malviventi, facendo piazza pulita del marciume. Che dire poi del protagonista Jeffrey? Un assassino freddo e spietato solo contro il mondo, che per certi aspetti può ricordare il Jeff Costello interpretato da Alain Delon nell’epocale Le Samourai di Melville (1967, da noi conosciuto come Frank Costello faccia d’angelo): come Jeffrey, anche Jeff (un’assonanza nei nomi casuale?) è un “malato di solitudine” che finisce per essere tradito dai committenti, ritrovandosi con le spalle al muro; ma Jeffrey, a differenza di Jeff, mostra un notevole lato umano che convive con quello mostruoso: l’impassibile killer è al tempo stesso un uomo gentile dai modi raffinati ed eleganti e dall’animo profondamente romantico ed eroico, che non esita a mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di una bambina accidentalmente coinvolta in una sparatoria (la seconda vittima innocente del film), e che sprofonda in una forte crisi interiore scatenata dal ferimento della cantante Jenny, crisi che scardina le residue certezze dell’uomo portandone definitivamente alla luce la parte buona. Ma Jeffrey è anche un uomo determinato e pienamente consapevole delle proprie scelte, pronto ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità –dote piuttosto rara nella vita reale- accettando quindi le conseguenze delle proprie azioni, forte di una serenità interiore quasi religiosa che lo porta ad andare incontro alla morte con eroico stoicismo, in un atto autodistruttivo che si configura come volontario e lucido sacrificio di sé al cospetto del Male che opprime il mondo (in seguito la figura del solitario antieroe tragico votato all’autodistruzione ricorrerà spesso –pur se in una chiave ideologica e stilistica differente-  nei primi film del geniale Takeshi Kitano, a partire dall’opera d’esordio Violent Cop, che tra l’altro è del 1989, proprio come The Killer). Perfettamente sostenuto dall’ennesima prova magistrale del grande Chow Yun-Fat (uno degli attori preferiti dal regista, che lo ha voluto in tutti i suoi film d’azione girati ad Hong Kong), Woo costruisce un personaggio affascinante e suggestivo, ammantato da un’aura di eroismo antiretorico e coinvolgente quasi impensabile -salvo eccezioni, come Scorsese- nel cinema occidentale contemporaneo. Pienamente convincente anche la figura del co-protagonista, ben interpretato da Danny Lee, che se da un lato ripropone il cliché del Poliziotto solitudine e rabbia  –per citare il bel “poliziottesco” d’annata (1980) di Stelvio Massi interpretato da Maurizio Merli, il poliziotto per eccellenza del cinema italiano- ossessionato dal proprio lavoro e osteggiato dai superiori a causa delle sue iniziative personali, dall’altro arricchisce la figura del “tutore dell’ordine” instillandogli dubbi ed incertezze circa il Bene e il Male che lo rendono più umano e affascinante, oltre che qualcosa di diverso e di più che una semplice “macchina ammazza-cattivi”. L’ispettore Lee, fondamentalmente, è fatto della stessa pasta di Jeffrey, cosa che entrambi percepiscono immediatamente, ed è per questo che non può che “fare il tifo” per lui: oltre a rivaleggiare con il killer quanto ad intelligenza e istinto, Lee è animato dal medesimo, fortissimo fino ai confini di Utopia, codice etico che muove Jeffrey, il quale altri non è che un enigmatico ossimoro vivente, una contraddittoria combinazione di crimine ed eroismo di potente suggestione e carisma. Ed è proprio in virtù di un intransigente desiderio di giustizia e di pulizia morale che anche Lee va fino in fondo, decidendo di rendere onore all’amico caduto –per mano del boss, che prima lo ha anche accecato- compiendo un gesto estremo che gli costerà carriera e libertà ma che chiuderà finalmente il cerchio, e con esso il film.
Rispetto ad A Better Tomorrow, questa storia esprime con maggiore intensità il senso tragico dell’esistenza ed il pessimismo di fondo di Woo (concetti che raggiungeranno il parossismo nell’apocalittico Bullet in the Head), che ha il coraggio di operare sempre le scelte più dolorose: nello scontro tra Bene e Male non c’è scampo per nessuno, nemmeno per gli innocenti –i civili- che si ritrovano in mezzo (Jenny, la bambina, il prete…). La violenza umana non ha limiti, e si spinge perciò in direzione di un assoluto nichilismo: nel corso della sparatoria finale, in una delle scene più forti del film, i sicari del boss irrompono nella chiesa (abituale rifugio, forse anche spirituale, di Jeffrey, attratto dal senso di pace che il luogo esprime) sparando all’impazzata e facendo letteralmente esplodere persino la statua della Madonna col bambino; di una disperazione quasi insostenibile, poi, la scena che precede il finale: ormai cieco e in punto di morte, Jeffrey striscia sul terreno in cerca di un ultimo contatto con Jenny, anche lei impegnata nello stesso sforzo; ma i due si mancano, e mentre Jeffrey muore Jenny lo supera senza accorgersene, continuando a cercarlo invano vagando nell’oscurità…

Prima di chiudere, trovo importante spendere qualche parola sul versante tecnico, poiché la continuità con la mini-saga di A Better Tomorrow si esprime anche –e soprattutto- a livello stilistico: il noir secondo John Woo è un insieme di stilemi che hanno fatto storia, come la geometrica perfezione delle coreografie delle scene di violenza, che hanno portato la critica a paragonare le sparatorie “alla Woo” a dei balletti, o l’abbondante ricorso al ralenti in chiave allucinatoria e antinaturalistica o, ancora, il magistrale utilizzo degli spazi, con una Hong Kong tutt’altro che da cartolina ma comunque suggestiva. La violenza è un elemento costante di questi film, ma la sua terribile concretezza e durezza è stemperata e sublimata dalla forte stilizzazione cui è sottoposta da Woo, che riesce a fare di ogni sua opera una vera e propria gioia per gli occhi, forte di un gusto estetico inimitabile che si è portato dietro, facendo scuola, anche negli States. Suggestive e adatte all’atmosfera del film le musiche di Lowell Lo, mentre risulta penalizzante, come spesso accade con i film asiatici, il doppiaggio italiano, al quale è preferibile la traccia audio originale con i sottotitoli.

Il titolo originale del film significa “Due proiettili eroici”.


Francesco Vignaroli

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